Addio al falco Schäuble
È stato il regista delle finanze pubbliche in perfetto ordine, grande avversario dello spendere a debito e la mente di alcune scelte che ancora oggi stanno condizionando la politica tedesca
La Germania è a lutto, e un po’ lo è tutta l’Europa. La scomparsa di Wolfgang Schäuble, figura di spicco della CDU e uno degli uomini chiave della politica tedesca degli ultimi cinquant’anni, lascia i conservatori europei orfani di un punto di riferimento importante. Il “falco” dell’eurozona, che ha fortemente influenzato le decisioni dalla metà degli anni 2000, si è spento martedì sera, circondato dalla famiglia, all’età di 81 anni. Nonostante il suo stato di salute non fosse mai stato oggetto di discussione pubblica, i giornali tedeschi rivelano che Schäuble aveva ridotto notevolmente le sue apparizioni pubbliche negli ultimi tempi. Ancora poche settimane fa, lo si era visto nei corridoi del Reichstag. Vittima di un attentato nel 1990, durante la campagna elettorale, che lo aveva lasciato su una sedia a rotelle, Schäuble era noto per la sua forza nel ritorno alla vita politica e per aver affrontato apertamente la sua condizione di invalido. Era ministro dell’Interno e uno dei più fidati uomini di Helmut Kohl, quando il 12 ottobre 1990 durante la campagna elettorale, un uomo gli sparò tre colpì a bruciapelo, di cui uno lo colpì alla spina dorsale. Da allora, viveva sulla sedia a rotelle: ma trovò la forza di tornare presto alla vita politica. E cosa rara per i politici tedeschi, parlò con discrezione ma apertamente anche di questa sua condizione di invalido. Ma fu soprattutto durante la crisi dell’eurozona, che il suo nome diventò un simbolo dell’«austerità» e dell’intransigenza verso i Paesi meridionali. Si devono ad alcune sue scelte, quando fu ministro delle Finanze di Angela Merkel, l’estremo rigore e l’intransigenza nel trattare la crisi greca. Nei momenti più drammatici della crisi, fu sul punto di volere l’esclusione di Atene dall’eurozona: una sua dichiarazione in tal senso, fece quasi temere che la Germania si schierasse su tali posizioni. E si deve più alle capacità di mediazione di Angela Merkel e alla sua volontà di tenere unità l’Europa — e anche all’asse con la Bce, allora governata da Mario Draghi — se poi la Grecia è rimasta agganciata al treno dell’euro. Per questo rigore — che però fu sempre accompagnato da un’enorme conoscenza tecnica e a grandi capacità politiche — è stato visto in molti Paesi dell’Europa del Sud come un avversario e, nel crescente populismo continentale, quasi un «nemico». Titoli che probabilmente non gli dispiacevano. In Germania, è stato il regista delle finanze pubbliche in perfetto ordine, grande avversario dello spendere a debito e la mente di alcune scelte che hanno condizionato e stanno condizionando anche adesso la politica tedesca. È stato tra i promotori della Schuldenbremse, il «freno al bilancio» inserito nella Costituzione nel 2009 che impedisce a Berlino di sforare il bilancio annuale dello Stato se non dello 0,35% (tranne in casi eccezionali, come le pandemie e le guerre). È proprio questa decisione che ha messo in grossa crisi il governo attuale di Olaf Scholz e lega enormemente le mani a qualsiasi esecutivo futuro, di fatto impedendo a Berlino di finanziarsi liberamente sui mercati a debito, perfino per progetti innovativi come la svolta verde, sebbene il Paese goda di una tripla AAA. Ma il suo nome viene anche legato alla «schwarze Null», lo zero in bilancio. Quando fu ministro delle Finanze, per diversi anni chiuse il bilancio perfettamente alla pari: con lo Schwarze Null, appunto. Riportò il debito della Germania verso il 60% - aiutato, va detto, da tassi bassi e una congiuntura molto favorevole alla Germania. E quando alla fine si congedò dal suo dicastero, gli impiegati delle Finanze, che pur temendolo lo rispettavano e stimavano molto, formarono nel cortile una gigantesca coda con la forma dello 0. Diventò nel 2017 presidente del Bundestag, il Parlamento tedesco, ma fallì nell’ambizione che non confessò mai pubblicamente: di diventare presidente della Repubblica. Si era speso — con le ultime forze, probabilmente - per una riforma dell’immigrazione in senso restrittivo, limitando il diritto all’asilo per i nuovi rifugiati, lui che è stato l’autore dell’attuale legge sull’asilo tedesca. Nessun politico tedesco prima di lui era riuscito nell’impresa di farsi eleggere per 50 anni di fila in Parlamento. Dove non voleva mancare mai: visto il Bundestag circondato dai manifestanti, usò un elicottero per arrivare nell’aula dove doveva votare. Comunque siano giudicate le sue politiche e le sue scelte, è indubbio che oggi la Germania - e non solo - gli tributerà il congedo che si deve ai giganti. Pierferdinando Casini lo ricorda come “un Democratico cristiano, uno della vecchia guardia. La sua generazione è quella di Khol, di cui è stato il più intimo collaboratore, con cui ha drammaticamente litigato. Quando? Quando, al termine della sua esperienza, Kohl scelse come sua erede universale la Merkel. Il rapporto non si è mai sanato”. “Schäuble – prosegue Casini – fu un uomo di grande coraggio e di grande determinazione: dopo essere rimasto sulla sedia a rotelle ha continuato a viaggiare e a lavorare più di prima, arrivando velocemente ovunque”. Rimanendo se stesso: “Un falco. Un rigoroso. Capace di interloquire con tutti, penso al suo rapporto con Giulio Tremonti. È stato un uomo delle istituzioni come capo del Bundestag. Un tedesco a tutto tondo, con le asprezze dei tedeschi ma anche con la consapevolezza che c’era un debito di quel Paese con la storia e questo debito lui è stato pronto a pagarlo”. Il rapporto tra Schäuble e l’Italia non fu mai semplice e Casini non lo nega. “Kohl diceva: i tedeschi amano gli italiani ma non li stimano, gli italiani stimano i tedeschi ma non li amano. Questo era particolarmente vero per Schäuble. Che comunque veniva in Italia ogni volta che poteva”, conclude Casini. Anche Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Renzi e amico personale di Schäuble, ne ricorda il carisma. “Quando era atteso nelle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, tutti aspettavano a parlare. Solo quando lui entrava nella sala, si dava inizio alla sessione”. I due, spesso in disaccordo, riuscirono a cucire un rapporto personale collaborativo. “Incarnava pienamente i princìpi dell’Ordoliberalismus, i cui cardini consistono nel limitare la flessibilità, fonte di equivoci”.
Sullo sfondo della guerra nella Striscia di Gaza, lo scontro tra Iran e Israele non accenna a placarsi. Dopo l’uccisione di Sayyed Razi Mousavi, comandante dei Pasdaran morto in un raid in Siria attribuito a Israele, Teheran ha giurato vendetta. La ritorsione è già stata annunciata dai vertici iraniani, con il ministero degli Esteri che ha detto allo Stato ebraico di “cominciare il conto alla rovescia”.
Ma se al momento è difficile dire come possa concretizzarsi la minaccia, una prima conseguenza di questo avvertimento è stata confermare il rischio di un’escalation incontrollata nella regione. La dimostrazione è arrivata proprio dai Pasdaran, che ieri, in una prima dichiarazione, avevano detto che l’attacco del 7 ottobre di Hamas contro Israele “è stata una delle operazioni di rappresaglia intraprese dall’asse della resistenza contro i sionisti per il martirio del maggiore generale Soleimani”. Hamas ha poi smentito quanto dichiarato dai Guardiani della rivoluzione sulla correlazione tra l’assalto a Israele e l’omicidio di Qassem Soleimani, avvenuto il 3 gennaio del 2020 a Baghdad per mano Usa. E lo stesso portavoce dei Pasdaran, Ramazan Sharif, ha fatto marcia indietro dicendo che le frasi iraniane erano state distorte. Tuttavia, se il botta e risposta indica delle divergenze tra Hamas e gli Ayatollah, certifica anche che la guerra-ombra tra Iran e Israele esiste e che Teheran ha interesse a mostrare la propria proiezione di forza in tutto il Medio Oriente. Tanto che lo stesso Sharif ha detto che l’Iran “si riserva il diritto di reagire” all’uccisione di Mousavi “direttamente o con l’aiuto del fronte della resistenza nella regione”. Un fronte che va dai territori palestinesi al Libano, dallo Yemen all’Iraq fino alla Siria e che da tempo è coinvolto in un conflitto più o meno intenso con Israele e con gli Stati Uniti. Washington è impegnata in prima linea per evitare che l’incendio investa tutta la regione. Ieri, il sito Axios ha rivelato che il segretario di Stato Anthony Blinken dovrebbe recarsi in Medio Oriente la prossima settimana per discutere di Gaza con le controparti israeliane, palestinesi e arabe. E la notizia è giunta dopo il blitz a Washington di Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari strategici. Gli Stati Uniti vogliono capire il piano del premier Benjamin Netanyahu per diminuire l’intensità della guerra (richiesta formulata dall’amministrazione Biden e da tutta la comunità internazionale) e sondare il terreno anche per il dopoguerra nella Striscia. La situazione si fa sempre più difficile sul fronte umanitario, mentre le Tsahal continuano a colpire Hamas e le altre milizie. Ieri mattina le Israel defense forces hanno comunicato di avere colpito 200 obiettivi nelle precedenti 24 ore, mentre alcuni commando sono dentro Khan Younis, roccaforte meridionale di Hamas. La preoccupazione è rivolta anche ai vari fronti a livello regionale. Dallo Yemen, gli Houthi continuano a mettere a rischio la stabilità del commercio nel Mar Rosso, con le navi e gli aerei Usa impegnati a intercettare droni e missili diretti contro i cargo o anche contro Israele. Mentre in Libano, la tensione con Hezbollah resta alta, e il capo di stato maggiore israeliano, Herzi Halevi ha detto che le forze armate, se necessario, sono “pronte per un possibile attacco”. Per i comandanti israeliani la guerra a Gaza potrebbe durare mesi. Ma la speranza di Biden è che si possa giungere a una definizione del conflitto nell’arco di settimane. Questo anche per le tensioni sempre più evidenti tra i partner Usa della regione. L’ultimo campanello d’allarme è quello fatto risuonare dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha accusato Netanyahu di “non essere diverso da Hitler”. Il premier israeliano ha risposto accusando il Sultano di “genocidio contro i curdi” e di essere “l’ultimo che può fare prediche”. Ma scevro dalla propaganda, il segnale turco è chiaro: la guerra tra Hamas e Israele può innescare crisi in una regione che è ormai una polveriera.