Il Riformista (Italy)

Sì & No GIUSTO DUBITA E DEL RINNOVO DI MORINHO?

- Alberto Gaffuri/ Giornalist­a

Sì, essere protagonis­ti significa esporsi ed essere messi costanteme­nte in discussion

L’ultimo risultato in stretto ordine di tempo, il 2-0 inflitto al Napoli l’antivigili­a di Natale, è di quelli che valgono parecchio. I tre punti ottenuti dalla Roma all’Olimpico, infatti, non soltanto hanno portato con sé il superament­o nella classifica della Serie A dei partenopei, oggi seduti un posto dietro ai gialloross­i della capitale, ma hanno anche creato il clima ideale per affrontare la Juventus nell’ultimo match del 2023 in programma sabato sera a Torino. Seppur i verdetti siano ben al di là da venire, dalla gara dello Stadium e dalla successiva in casa con l’Atalanta dopo l’Epifania sarà possibile capire un po’ di più circa il ruolo presente e futuro in campionato della squadra capitolina. Nel mezzo, per non farsi mancare nulla, ci saranno gli ottavi di Coppa Italia in casa con la Cremonese, mentre sullo sfondo c’è la doppia sfida col Feyenoord che, a partire da metà febbraio, andrà a definire il destino prossimo in Europa League della squadra del capitano Lorenzo Pellegrini.

Senza tutta questa lunga premessa sarebbe difficile capire perché, ormai al termine del suo triennio sulla panchina della Magica, non ci sia ancora alcuna certezza sul rinnovo del tecnico José Mourinho. Nessuno al mondo, quantomeno se dotato di senno, credo possa mettere in dubbio il valore assoluto del tecnico portoghese. Lo Special One, del resto, il suo soprannome se l’è meritato sul campo, ancorché sia stato lui stesso a suggerirlo ormai una ventina d’anni fa nel corso d’una conferenza stampa ai tempi della sua prima esperienza al Chelsea. Da allora, però, di acqua sotto i ponti ne è passata, e tanta, con il Triplete in salsa neroazzurr­a tuttora portato a vessillo dai tifosi interisti e, venendo a tempi più recenti, gli esoneri al Manchester United e al Tottenham prima dell’approdo sul Tevere. All’ombra del Colosseo ecco il successo in Conference League e, lo scorso anno, la finale di Europa League sfumata sul più bello a lasciare un po’ di amaro in bocca a chi già pregustava il successo.

A prescinder­e dai risultati, Mourinho ai romanisti – e non solo, partendo da chi scrive – piace terribilme­nte. Piace il suo modo di fare, la sua innata teatralità, la spiccata capacità di comunicare anche stando zitto, di attirare l’attenzione dei media su di sé rubando la scena perfino ai giocatori di punta delle sue squadre. Non c’è Romelu Lukaku o Paulo Dybala che tenga: il leader incontrast­ato è lui e, come tale, è messo in discussion­e ogni giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto. È il destino di coloro ai quali ci si affida e di coloro di cui ci si fida ciecamente, senza riserve, quasi avessero poteri soprannatu­rali. Proprio per questa serie di motivi che ne fanno un personaggi­o unico, il prolungame­nto del contratto di Mourinho può – e, aggiungo io, deve – essere valutato con grande attenzione dalla proprietà. I risultati raggiunti, ovviamente, sono il primo indicatore, parametro che soltanto l’allenatore e la famiglia Friedkin sanno analizzare in base agli accordi alla base del loro matrimonio sportivo. Tralascian­do il romanticis­mo di facciata, l’industria del calcio è un’azienda a tutti gli effetti, un luogo di lavoro che ha regole interne da seguire, obiettivi da raggiunger­e e budget individuat­i allo scopo da chi investe e vuole un ritorno proporzion­ale all’investimen­to fatto.

Simpatia e antipatia, che pur fanno parte della vita di ognuno di noi, hanno sì un peso, ma non così rilevante come in apparenza potrebbe sembrare. Ecco perché un rigore non fischiato, un’ammonizion­e di troppo, oppure una papera possono cambiare il destino di una stagione e, conseguent­emente, modificare il futuro dei suoi protagonis­ti. È la condanna, ma in ultima analisi anche il premio, per chi sta in prima fila e non al centro gruppo in attesa di eventi. Essere protagonis­ti significa esporsi e, perché no, essere messi costanteme­nte in discussion­e. Mourinho tutto questo lo sa bene e lo accetta. La sua fama globale - e mi ripeto - sta tutta nell’essere lui stesso a pensarsi speciale.

No, lo Special One è testa, anima e patrimonio di questa Roma

Poco prima di Natale, l’As Roma ha reso noti i numeri del proprio bilancio. Un quadro complesso ma con numeri che certifican­o un andamento sicurament­e positivo, a partire dalle perdite che sono state dimezzate. Se il bilancio sorride, è sicurament­e frutto di un attento lavoro societario. Ma a guardare bene i numeri si scopre che le tre voci che hanno contribuit­o maggiormen­te al risultato positivo sono: incassi al botteghino con i continui sold out all’Olimpico (+23,7 milioni), risultati nelle competizio­ni europee (premi UEFA triplicati da 6 a 18 milioni) e ricche plusvalenz­e dalla vendita di giocatori giovani lanciati e valorizzat­i (20 milioni solo dalle cessioni di Tahirovic, Volpato e Missori). Queste tre fondamenta­li voci di entrata hanno un nome e un cognome: Josè Mourinho. Inconfutab­ilmente è il carisma del portoghese che ha reso il tutto esaurito un’abitudine all’Olimpico, anche per partite non di cartello, anche dopo cocenti sconfitte (si va verso il sold out persino per Roma-Cremonese di Coppa Italia, il 3 gennaio), un caso unico nel calcio europeo. Così come è Mourinho ad aver portato la Roma a due finali consecutiv­e (mai accaduto nei suoi 96 anni di storia) ed è sempre lui - sfruttando una debolezza di rosa in opportunit­à - ad aver trasformat­o dei semi sconosciut­i ragazzini della Primavera in uomini e in calciatori. Cessioni dolorose che hanno permesso alla Roma di superare i vincoli dell’Uefa.

Basterebbe­ro questi dati a rendere pressoché automatico il rinnovo dello Special One, e ridicolo qualsiasi tentativo di ridimensio­nare il suo lavoro. Ma non c’è solo il bene che Mourinho ha fatto ai conti della Roma. C’è il bene che ha fatto alla Roma, proiettand­ola, con la sua sola presenza in panchina, dove merita di stare, tra le grandi. Con un percorso entusiasma­nte che ha portato al primo trofeo per i gialloross­i, dopo 18 anni di astinenza, e che senza lo scandaloso arbitraggi­o di Taylor a Budapest, avrebbe portato anche alla conquista dell’Europa League lo scorso anno. Ma ancora di più, c’è il bene che Mourinho ha fatto ai romanisti. Il romanismo è uno stato dell’anima unico, fatto di vittorie e di rovesci, di passione, chilometri, amore, lacrime, gioie e dolori. Il mister ci ha unito, come una “familia”, termine che ama ripetere per descrivere quell’empatia tra allenatore, team e tifosi che è riuscito a costruire. “Familia” come quell’amore viscerale che i romanisti gli tributano perché lo riconoscon­o come il condottier­o che stavano aspettando: un amore, un’identifica­zione che ha come possibile confronto solo quello per Francesco Totti. Che non a caso, Mourinho vorrebbe al suo fianco. Ma anche la Roma - e Roma - devono aver cambiato Josè. Altrimenti non si spieghereb­be il no ad un’offerta indicibile arrivata dall’Arabia Saudita, non si spieghereb­be questo attaccamen­to ad una delle sfide più difficili della sua carriera o il coraggio con cui deve far fronte ogni domenica a torti arbitrali e ad una rosa inadeguata agli obiettivi che la Roma si pone. Fatta eccezione per due eccellenze come Dybala e Lukaku, che - sia chiaro - sono qui solo per lui. E quel cambiament­o che lo ha portato a scegliere Roma, oggi gli fa fare un passo in più. E gli fa dire: voglio restare qui. Non voglio un euro di più e voglio restare qui. Per provare a fare qualcosa che non hai mai sperimenta­to prima: rinunciare ai grandi nomi e puntare sui giovani. Un’occasione che sarebbe da pazzi lasciarsi sfuggire.

Insomma, che vogliamo affidarci alla razionalit­à dei bilanci o all’irrazional­ità dei sentimenti, che vogliamo valutare il suo lavoro dal punto di vista aziendale o da quello sportivo, che si voglia scegliere con la testa o col cuore, la risposta possibile è una soltanto: Mou non si tocca. Josè Mourinho è testa, anima e patrimonio di questa Roma e può diventare per noi quello che è stato nel tempo Sir Alex Ferguson per il Manchester Utd. Anche perché se consideri un problema il quinto allenatore più vincente della storia del calcio, forse il problema sei tu.

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