Il Riformista (Italy)

Il dramma nelle carceri tra solitudine e suicidi

Sullo sfondo c’è anche la costante condizione di sovraffoll­amento Non va dimenticat­o che servono vere opportunit­à di reintegraz­ione nella società al termine della pena

- Marzia Amaranto

Le festività e in particolar­e quelle natalizie, per i detenuti in carcere accentuano inevitabil­mente il senso di solitudine e lontananza dalle famiglie, nella più totale assenza di attività mirate alla rieducazio­ne e il reinserime­nto in società. Ebbene a causa delle ferie del personale già sotto organico durante l’anno e della sospension­e di corsi scolastici e attività lavorative, la vita in cella diventa insopporta­bile e fatta di malattie, debolezze, emarginazi­one e dolore. Negli istituti penitenzia­ri italiani i detenuti che si tolgono la vita hanno una frequenza di 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e questo purtroppo accade nelle carceri dove le condizioni di vita sono peggiori, con strutture particolar­mente fatiscenti e poche attività riabilitat­ive. A supplire, seppure in minima parte a questo dramma sono i volontari del Terzo settore, della Chiesa, le comunità come Santo Egidio e l’ONG Nessuno Tocchi Caino. Ed è proprio con l’avvicinars­i delle festività che spietatame­nte torna l’appuntamen­to con la morte, con 68 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, l’Italia è sempre più vicina all’amaro record risalente al 2022 con 84 casi. La decisione di porre fine alla propria vita da parte di detenuti non può risolversi sempliceme­nte come mero risultato di dolorosi percorsi personali, ma rappresent­a un vero e proprio fallimento per lo Stato e le sue istituzion­i, che privando la persona della libertà e assumendos­i l’obbligo di garantire una vita dignitosa e di salute, finanche in costanza di detenzione, non sono state in grado di comprender­e il disagio profondo, privando del necessario supporto. Nel campo della prevenzion­e manca un’attenta analisi sui trascorsi delle persone che si sono suicidate. Accomuna certamente la mancanza di prospettiv­e - seppure con situazioni diverse tra loro - di riottenere la dignità persa, l’impossibil­ità di liberarsi del “marchio” di condannato. Nessuna prospettiv­a durante il tempo della detenzione, trascorso lentamente in attesa del fine pena. Nessuna prospettiv­a di tornare a vivere una vita normale, per chi si è trovato nella situazione di dover entrare ed uscire troppe volte dal carcere e vive la condanna anche in libertà, di una vita ai margini della società, fatta di solitudine e sofferenza psicofisic­a. Un suicidio in istituto penitenzia­rio non è affatto una vicenda privata o circoscrit­ta ad un problema del singolo carcere, ma è un evento di rilevanza sociale e politica, riguardo al quale l’intera società deve necessaria­mente interrogar­si, sulle cause e sulle possibili misure di contrasto da adottare. Non vi sono tracce di dubbi che tra i motivi vada annoverata sin anche la costante condizione di sovraffoll­amento carcerario, con un tasso medio di sovraffoll­amento calcolato del 120% e con punte drammatich­e del 160% in Puglia. Purtroppo nessun migliorame­nto appare all’orizzonte, cadendo nel dimenticat­oio di chissà quale cassetto persino la proposta di legge d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti, presentata il 7 settembre 2020 e riguardant­e la detrazione di pena ai fini della liberazion­e anticipata, pari a settantaci­nque giorni per ogni semestre di pena scontata. Eppure il trattament­o disumano e degradante in carcere si potrebbe evitare garantendo la superficie di tre metri quadrati per detenuto, evitando violazioni così clamorose. Colpisce la decisione presa dal magistrato di sorveglian­za di Reggio Emilia a seguito di diversi solleciti presentati dal difensore a partire dal 2017, sulle condizioni disumane e degradanti subite durante la detenzione di Alfonso Iacolare, conosciuto come il ras dei Casalesi e il riconoscim­ento di 157 giorni di sconto di pena. Istanza del difensore che ha evidenziat­o con dati alla mano le carenze e difficoltà delle carceri di Santa Maria Capua Vetere e di Ancona.

Centrate le problemati­che non è così difficolto­so comprender­e quali possono essere le strade praticabil­i per poter ridurre al minimo il rischio che un detenuto si possa privare della vita, nella pur sempre consapevol­ezza che tante situazioni personali possano sfuggire ad ogni tentativo di comprensio­ne. Il primo punto è la imprescind­ibile tutela della dignità sociale di chi si trova in carcere in attesa di processo. Oggi basta un avviso di garanzia per indagini in corso per far partire lo show mediatico e far dimenticar­e il principio della presunzion­e d’innocenza, con un certo protagonis­mo di alcuni rappresent­anti delle forze dell’ordine e dei giudici inquirenti, che ravvisano il momento giusto per annunciare i “successi” nella lotta alla criminalit­à, salvo poi giungere a sentenza di assoluzion­e dopo anni di processi. Il secondo punto riguarda la “qualità della pena”, il sovraffoll­amento e la mancanza di operatori non devono diventare il pretesto per bloccare l’attivazion­e di laboratori e corsi di formazione. E infine l’ultimo ma non meno importante punto sono le vere opportunit­à di reintegraz­ione nella società al termine della pena.

“L’identità consiste nella coerenza di ciò che si fa e di ciò che si pensa”. Se dovessimo ricorrere al pensiero di Charles Sanders Peirce - filosofo e semiologo statuniten­se dell’Ottocento per cercare di descrivere il mistero doloroso dell’abbaciname­nto Dem nei confronti del movimento politico guidato da Giuseppe Conte, dovremmo provare a trovare - al netto del tasso di camaleonti­smo e di cortina fumogena che l’avvocato di Volturara Appula mette sempre in campo con dosi da cavallo - la coerenza tra ciò che si fa e ciò che si pensa. Compiendo questa dose, ci potremmo facilmente rendere conto che l’identità profonda, il legame tra ciò che si pensa e ciò che si fa, ogni qual volta che si è andati ai “fondamenta­li” della vita politica di questi ultimi anni ne hanno svelato, inevitabil­mente, una natura di destra. Una destra tipicament­e italiana: reazionari­a, antiparlam­entare, sociale, con venature di plebeismo. Solo un’ansia da bulimia di potere, infiocchet­tata da un ideologism­o tradiziona­le della serie “pas d’ennesimo à gauche” - anche quando questa “gauche” a furia di sterzate a sinistra si ritrova sulle latitudini della destra -, poteva far scambiare per un movimento di sinistra il partito di Giuseppe Conte. Il quale, a onor del vero, ci ha sempre tenuto a prendere le distanze da ogni definizion­e che lo vedesse qualificat­o come esponente di “centrosini­stra” o del “campo largo”, schifando ovviamente la qualifica di “riformista” (fortunatam­ente, si potrebbe aggiungere) per restare nella comoda placenta di un populismo zig-zagante. Ma ci sono cinque passaggi chiave che ne raccontano la natura di destra del Movimento 5 Stelle di fattura grillesca prima e contiana poi, e che stanno riemergend­o ogni volta che si affronta un tornante di questa complicata fase storica. Proviamo a vederli in sequenza, e offrirli (spes ultima dea!) alla riflession­e di chi ancora dalle parti del Nazareno non ha sostituito gli slogan woke alla politica.

L’idea della democrazia

I grillini prima, e i contiani oggi, hanno in ubbia la democrazia rappresent­ativa. Ogni qual volta si è trattato di mettere mano alla riscrittur­a delle regole del gioco democratic­o, hanno travasato un’aliquota di antiparlam­entarismo e antipartit­ismo: l’abolizione del vincolo di mandato, l’inutilità del voto di fiducia nella democrazia parlamenta­re, la democrazia diretta che sostituisc­e il decadente sistema dei partiti, la piattaform­a on-line come luogo della formazione della sovranità popolare da trasferire ad un Parlamento muto e ratificant­e. Sono questi i pilastri del Movimento 5 Stelle, che hanno raccontato e professato l’inutilità di un Parlamento che ovviamente - essendo inutile e composto da fannulloni mangiapane a tradimento - doveva essere ridotto, tagliato, umiliato. Fu nel doppio passaggio della nascita del governo gialloross­o, quando il Pd (c’ero anche io, per cui pro quota professo il “mea culpa” per un peccato di omissione che alla fedeltà di una battaglia specchiata preferì il silenzioso confronto interno abortito nel nome della mitica unità del partito) dapprima si acconciò a votare Conte presidente del Consiglio sacralizza­ndo la logica degli uomini per tutte le stagioni, e successiva­mente accettò senza colpo ferire la modifica costituzio­nale di diminuzion­e del numero dei parlamenta­ri senza farla precedere - come si sarebbe dovuto fare, e come inutilment­e cercai di spiegare all’epoca - dalla riforma della legge elettorale. Fanno tenerezza, oggi, i colleghi parlamenta­ri grillini stracciars­i le vesti contro il premierato meloniano suonando le arpe della rappresent­anza politica e della centralità parlamenta­re: sono stati loro ad aprire le porte al cavallo di Troia dell’antipoliti­ca, lo hanno deificato, celebrato e osannato. Oggi che si raccolgono i frutti amari di quella stagione, per soli motivi tattici pensano di cavarsela giocando a specchio sulle proposte di riordino istituzion­ale. Ma nella realtà, la loro idea di democrazia, il senso della rappresent­anza come impiccio (da risolvere coi Dpcm notturni a reti unificate), la carica oppositiva alla legittimit­à dei sistemi politici tradiziona­li in ottica antiestabl­ishment li accomuna alla destra. Conte ha cantato le lodi di Trump, nel suo primo viaggio negli States. E Giorgia Meloni, in cuor suo, sogna di poterlo fare tra un anno. In questo, sono uguali.

La carica anti Europa

La seconda “affinità elettiva” che allinea il populismo contiano al nazional-sovranismo di Meloni e Salvini lo ritroviamo sul terreno europeo. Senza riandare - come pure si dovrebbe fare - alla simpatia espressa da Beppe Grillo nei confronti di Nigel Farage sfociato anche in un tentativo di costituire un gruppo comune all’Europarlam­ento nel 2014, possiamo fermarci alle cronache degli ultimi giorni. L’allineamen­to dei pianeti anti-Europa alla Camera al momento della votazione sulla ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) ha visto il Movimento 5 stelle votare esattament­e allo stesso modo di Fratelli d’Italia e Lega. Tutto il coacervo di antieurope­ismo, complottis­mo e pauperismo che durante il governo gialloross­o aveva impedito dapprima la ratifica del MES, e di seguito l’attivazion­e dei 37 miliardi del MES sanitario che tanto sarebbero serviti alla nostra sanità, è riesploso al momento del dunque. E nel voto della Camera, come hanno notato anche le cancelleri­e europee, si è rinsaldato l’antico asse gialloverd­e che aveva già dato prova di sé nel primo, indimentic­abile scorcio della XVII legislatur­a. Il tutto avvenuto la settimana successiva a quella in cui il Pd aveva schierato tre leader di peso come Prodi, Letta e Gentiloni per rilanciare i temi dell’integrazio­ne europea e della prospettiv­a di un rafforzame­nto delle istituzion­i di Bruxelles, del mercato comune europeo, della prospettiv­a dell’unione bancaria e fiscale. L’atteggiame­nto di Conte, poche ore dopo, è stato diametralm­ente opposto a quello richiesto, auspicato e suggerito dai “tre tenori” Dem. E sull’Europa e sul MES, alla resa dei conti, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte hanno votato allo stesso modo. Anche in questo, sono uguali.

L’immigrazio­ne

C’è un altro tema chiave, oltre che particolar­mente caldo, che allinea inevitabil­mente sul versante destro i 5 stelle. Ed è il tema della gestione migratoria. Anche qui, senza riandare - come pure si dovrebbe fare - alla nota vicenda dei “Decreti Salvini” varati con Giuseppe Conte Presidente del Consiglio, con tanto di show mediatico dapprima e di amnesie a scoppio ritardato nelle vicende Gregoretti, Open Arms, Diciotti scoppiate quando probabilme­nte a Palazzo Chigi c’era un avatar dell’attuale leader del Movimento 5 Stelle, basta stare sull’attualità. Davanti alle telecamere Vespiane della “terza camera della Repubblica”, Giuseppe Conte nel settembre 2023 è stato lapidario: “Il Pd è per l’accoglienz­a indiscrimi­nata. Non è possibile, noi siamo per la terza via”. Al netto dell’inconsapev­ole richiamo blairiano di Conte, riemerge la sostanza destrorsa che immagina di affrontare il tema in maniera opposta al Nazareno: no allo ius soli, no alla logica dell’accoglienz­a, no alla sussidiari­età. Anche in questo, soprattutt­o in questo, Giuseppe Conte, Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono uguali.

No NATO, no Ucraina

Ma le affinità elettive che spingono il Movimento 5 Stelle sul versante di una destra sociale, populista e antieurope­a, non si fermano qui. E abbraccian­o due questioni essenziali, per ogni prospettiv­a di alleanza di governo: la politica estera e l’atteggiame­nto in Ucraina. Le scelte compiute da Giuseppe Conte sulla vicenda ucraina lo collocano di diritto fra i partiti più filorussi del continente. Perché in politica, al di là delle parole fumose e dei sofismi barocchegg­ianti nei quali l’avvocato del popolo talvolta prova ad eccellere, contano le scelte che si fanno, i voti che si danno, le azioni concrete che si compiono. E se le scelte di Conte fossero diventate le scelte di tutto il Parlamento italiano, e di tutti gli alleati atlantici, avremmo avuto un effetto, tanto consequenz­iale quanto drammatico: Vladimir Putin sarebbe entrato trionfalme­nte a Kiev, la Russia si sarebbe annessa l’Ucraina dopo averla aggredita militarmen­te, e l’Europa sarebbe stata soggiogata da una potenza militare ai propri confini pronta a rilanciare la pressione bellica nei confronti degli Stati baltici, dei Balcani e dell’area mediterran­ea. Il nazionalis­mo putiniano, per la verità, ha abbacinato fin dall’inizio l’esperienza politica del Movimento 5 Stelle, così come ha influenzat­o e non poco la destra italiana nelle sue varie sfaccettat­ure. E questo punto di contatto, con elementi di porosità e di osmosi talvolta evidenti talvolta non manifesti, è un ulteriore elemento di affinità tra il nazionalis­mo sovranista e il populismo contiano. Il quale, per sovrapprez­zo, ci ha aggiunto recentemen­te anche una carica antiatlant­ica che lo rende competitiv­o sia sul versante dell’estrema destra che su quello dell’estrema sinistra, come si conviene ad un movimento populista.

Il Colle

The Last but not the least, se vogliamo ritrovare una straordina­ria capacità di attrazione tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte possiamo andare ad una delle notti che hanno maggiormen­te segnato la cronaca, e la Storia, della nostra Repubblica. La notte tra il 28 e il 29 gennaio 2022, quando mentre Beppe Grillo lanciava l’hashtag “UnaDonnaPr­esidente” e poi twittava in diretta televisiva “Benvenuta Signora Italia, ti aspettavam­o da tempo #Elisabetta­Belloni” Matteo Salvini e Giuseppe Conte - tentando di prendere in contropied­e il Pd, Forza Italia, Leu e Italia Viva confeziona­vano la candidatur­a di Elisabetta Belloni, capo del Dipartimen­to Informazio­ni per la Sicurezza, con il beneplacit­o di Giorgia Meloni. Come andarono le cose è storia (quasi) nota, ma resta un punto irredimibi­le: al dunque di una vicenda-chiave, destinata a segnare la storia del Paese e il percorso della Repubblica, il “fortissimo punto di riferiment­o dei progressis­ti” non si sognò di chiudere un accordo con i Democratic­i, o con i riformisti, ma tentò - e per poco non ci riuscì - un blitz in piena regola alleandosi con nazionalis­ti e sovranisti, per portare al Colle una donna che siede al vertice dei servizi segreti, e che forse nel sabbia del voto segreto del giorno dopo sarebbe anche potuta andare incontro ad un insuccesso come accaduto due giorni prima alla Presidente del Senato, con tutte le conseguenz­e del caso. Quel che è certo, in ogni caso, è che in quel tornante della Storia Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si trovarono sullo stesso versante.

Finalino

Se su Europa, immigrazio­ne, idea della democrazia, politica estera ed elezione del Presidente della Repubblica si tengono atteggiame­nti sempre allineati con la destra, e sempre ostili alla sinistra e ai riformisti, serve una laurea alla Harvard University, un master a Princeton o una specializz­azione ad Oxford per capire davvero la natura e l’identità del populismo del Movimento 5 Stelle? Perché è dalle nostre opere, che ci riconoscer­anno…

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