La solitudine e l’ironia di Alex Navalny
È la Russia, eterna come i suoi ghiacci, dura come la sua tundra...
Chissà cosa scriverebbe Alexandr Solženicyn di Aleksej Navalny, chiuso peggio di Ivan Denisovic in una prigione più lontana del circolo polare artico, l’oppositore del Grande dittatore dei nostri giorni che come Antonio Gramsci nei giorni del confino a Ustica e a Ponza mantiene incredibilmente un umore più che umano: laddove di umano non c’è nulla. Ma come fa a definirsi allegramente un Babbo Natale - gli è cresciuto un barbone - dicendo al mondo che non si trova nemmeno malissimo, tra i ghiacci siberiani e la follia di una condizione pre-moderna ai limiti della bestialità? La colonia penale “Ik 3” si trova a Charp, nella Yamalo-Nenetsia, una regione remota della Siberia. Aleksej Navalny si trova lì per scontare una condanna lunghissima: è contro Vladimir Putin e il suo regime di pazzi.
Non si vedono grandi dimostrazioni di protesta, nemmeno a livello diplomatico, per questa operazione zarista-staliniana, il che la dice lunga sulla potenza delle rimozioni che domina i cuori degli occidentali. Sembra che stavolta non ci siano un Koestler un Silone, un Gide a gridare che “il Dio è fallito”. Il gulag, dunque. Macchina non meno “efficiente” del lager. Stalin desertificò la Russia illudendosi di averla conquistata semplicemente annientandola: e il sistema regge ancora, eccome. Vladimir Putin è un uomo solo come lo Stalin descritto con la fantasia da Solženicyn in un altro libro meraviglioso e terribile che si intitola “Il primo cerchio”, meritoriamente pubblicato qualche anno fa dalla casa editrice Voland, un romanzo-affresco sconvolgente che per certi versi – lo si capisce fin dal titolo – si ispira nientemeno che alla Divina Commedia. Ebbene, in quel “primo cerchio” ci sono prigionieri privilegiati perché si tratta di matematici, fisici, chimici, ingegneri messi al lavoro dal regime per meglio organizzare il sistema concentrazionario: «Le vittime producono nuove vittime», scrive nella postfazione Anna Zafesova, la giornalista che ci racconta la Russia di oggi sulle pagine della Stampa. Speriamo che quello di Navalny sia un “primo cerchio” ma certo l’isolamento menoma gli individui del cuore dell’esistenza, cioè la socialità, e la fame, il silenzio, le umiliazioni fanno il resto. Eppure Navalny ha voglia di strapparci un sorriso pure in questa sua non-vita che noi, al caldo e con tanto cibo, non possiamo immaginare. È la Russia, eterna come i suoi ghiacci, dura come la sua tundra. Stalin-Putin si aggira nelle sue stanze dorate mentre Ivan Denosovic-Navalny ci sta dicendo che ce la fa, e noi, qui, dobbiamo credergli. «Suchov finì la sua scodella. Avendo preparato in anticipo lo spazio nello stomaco per due porzioni, una sola non l’aveva saziato...Si portò la mano verso il taschino interno, tolse dalla pezzuola bianca la crosta di pane non congelato e iniziòa pulire il fondo e i bordi sbeccati della sua scodella. Raccolta un po’ di sbobba in questo modo, la leccò con la lingua dalla crosta e con quest’ultima ne raccolse un altro po’. Alla fine la scodella era pulita, come lavata, con solo un leggero alone torbido» (da “Una giornata di Ivan Denisovic”, Alexandr Solženicyn). La Russia, l’orrore.