New York Times fa causa a OpenAi Battaglia legale
L’accusa è di aver utilizzato milioni di articoli protetti da diritti d’autore per addestrare chatbot automatizzati che ora competono con il giornale
Itermini della questione sono tutti contenuti in un articolo del New York Times stesso, co-firmato da Michael M. Grynbaum (esperto dei rapporti tra media, politica e cultura) e Ryan Mac (che scrive di responsabilità aziendale e tecnologia globale). Il quotidiano ha fatto quello che annunciava da mesi, ovvero ha citato a giudizio OpenAI e Microsoft per violazione dei diritti d’autore. Lo ha fatto schierando due eserciti di avvocati che promettono una guerra senza esclusione di colpi. Susman-Godfrey, lo studio legale che ha fatto vincere a Uber quella che è stata definita la causa del secolo (in materia tecnologica) e che ha già chiamato a giudizio OpenAI per conto di un gruppo di autori (tra cui John Grisham). L’altro studio è RothwellFigg, che ha vinto di tutto in tema di tecnologia, brevetti e diritti d’autore. La denuncia del New York Times (69 pagine depositate presso il Tribunale distrettuale federale di Manhattan) è pesantissima ed è destinata a diventare un punto di non ritorno per la tecnologia su cui si basa l’Intelligenza Artificiale, nonché a segnare per sempre i rapporti tra l’IA e il mondo come lo abbiamo conosciuto fino ad ora. Ed è soprattutto un segnale inequivocabile della magnitudo ascritta al potenziale distruttivo dell’IA generativa. Il New York Times non si sarebbe mosso altrimenti. Fare causa a OpenAI significa cioè riconoscere tutto il potere devastante di cui è capace l’IA. E proteggere i diritti d’autore insieme ai propri introiti è, sì, l’esercizio di un diritto sacrosanto ma è anche il segno che l’IA fa veramente paura. Perfino a uno dei quotidiani più blasonati d’America che nel frattempo ha anche assunto un direttore editoriale di IA, Zach Seward, che si dovrà occupare dell’utilizzo delle nuove tecnologie nel giornale. Come a dire che il New York Times non condanna l’IA tout court, anzi vuole avvalersene evitando però di essere saccheggiato e sopraffatto. Nello specifico, il New York Times contesta a OpenAI e ai suoi modelli generativi (ChatGPT ma anche Copilot di Microsoft) di aver utilizzato milioni di articoli protetti da diritti d’autore per addestrare chatbot automatizzati che ora competono con il giornale perché fanno informazione. E considera OpenAI responsabile, testualmente, di “miliardi di dollari in danni legali e effettivi” derivati dal fatto di aver copiato e usato in maniera “illecita opere originali e preziose” del giornale. Per questo, chiede che venga distrutto qualsiasi modello di chatbot e tutti i dati che derivano da materiale di proprietà del Times. Nella denuncia, il quotidiano sostiene altresì che i tentativi, in atto da Aprile scorso, di trovare una mediazione con Microsoft e OpenAI per “una soluzione amichevole” che avrebbe dovuto comprendere accordi commerciali e “parametri tecnologici” per il prodotti di IA generativa, non hanno portato alcun frutto. Di diverso segno è la reazione di OpenAI che affida alla responsabile delle Relazioni Pubbliche, Lindsey Held Bolton (la stessa che aveva ufficialmente annunciato il ritorno di Sam Altman alla guida di OpenAI), un comunicato secondo cui l’azienda si direbbe “sorpresa e delusa” dalla denuncia poiché considerava che le negoziazioni con il Times stessero “procedendo in maniera costruttiva.” Il comunicato contiene tutte le frasi di rito, incluso l’auspicio che, come è accaduto con altri autori, anche con il Times verrà trovato un modo “reciprocamente vantaggioso” per lavorare insieme e trarre vantaggio dalla tecnologia IA e dai nuovi modelli di reddito. E in effetti, OpenAI proprio questo mese ha siglato un accordo, del valore di decine di milioni di euro all’anno, con la tedesca Axel Springer per consentire ai suoi sistemi di IA di avvalersi dei contenuti di Bild, Politico e Business Insider - le prestigiose testate che ad Axel Springer fanno capo. A Luglio, un altro accordo era stato firmato con l’Associated Press. E se il New York Times sostiene che OpenAI (già valutata a 80 miliardi di dollari – Microsoft ne aveva investiti 13 miliardi) gli sta rubando gli articoli, il lavoro, i lettori e dunque i profitti, OpenAI, che al Times non ha ancora risposto, in un’altra causa in California ammette di utilizzare articoli e altro materiale ma dice di farlo in maniera “trasformativa e innovativa”, e dunque si appella al cosiddetto “uso lecito”. Una locuzione legale nel sistema giuridico statunitense che si riferisce a un’eccezione alle leggi sui diritti d’autore secondo cui è consentito l’uso limitato di materiale protetto da copyright senza dover ottenere il permesso. In tutto questo, c’è già chi accusa il New York Times di doppiopesismo. Proprio in questi giorni, il giornale ha derubricato a “linguaggio duplicativo” le accuse di plagio mosse da molti verso la Presidente di Harvard University, Claudine Gay. Se nel suo caso, a fronte di frasi o interi paragrafi mutuati da altri articoli, il New York Times ha titolato con una infelice locuzione parlando di “linguaggio duplicativo,” perché non applicare gli stessi parametri a OpenAI e considerare duplicativo, quindi trasformativo, anche il suo linguaggio? Vedremo cosa succede. Intanto il New York Times accusa OpenAI di arricchirsi a scrocco, OpenAI si dice convinta che non convenga a nessuno farsi la guerra, che bisogna lavorare insieme, e che non si può fermare lo sviluppo tecnologico (cioè il futuro) per questioni che in un certo modo sembrano già obsolete, come i diritti d’autore (tra l’altro alcuni degli articoli che ChatGPT produce sono risultato di “allucinazioni” perché perfettamente identici a quelli del Times ma farlocchi). Il rischio principale è che queste pastoie legali portino a una riduzione della concorrenza, frenino l’innovazione e facciano perdere agli USA (a favore di altre potenze, prima fra tutte la Cina), il ruolo di capofila nello sviluppo dell’IA – così come sostengono molti investitori. Mentre la battaglia legale prende corpo, gli interrogativi che solleva sono di enorme portata e vanno ben al di fuori delle aule dei tribunali. Il primo fra tutti riguarda il futuro del giornalismo, o meglio, se il giornalismo come viene concepito ora ha un futuro. Lo stesso dicasi per tutto ciò che è creativo. Le arti e la creatività in generale continueranno a essere frutto dell’ingegno umano o saranno generate da una macchina? E più che domandarsi se si riuscirà a distinguere tra l’una e l’altra cosa, vale la pena di interrogarsi per capire se c’è ancora un senso nel voler operare un distinguo, o se invece siamo agli albori di un’era in cui la commistione tra uomo e macchina non è più un processo reversibile. Se così fosse, parrebbe molto più produttivo cavalcare il cambiamento invece che ostacolarlo.