Il Riformista (Italy)

La bugia buona del Natale

Scompare la distorsion­e fiscale a favore degli stranieri, una norma sportivame­nte ingiusta pagata con i soldi dei contribuen­ti

- Emanuele Caroppo* *Psichiatra e Psicoanali­sta SPI

La scoperta che Babbo Natale è più leggenda che pancia piena di biscotti sembra non lasciare traumi. C’è invece il sospetto che il Natale, visto attraverso gli occhi di un bambino, possa recuperare per gli adulti quella magia perduta con la rivelazion­e dell’inganno

Siete sicuri che esista Babbo Natale? È bastato che le maestre ponessero questa domanda a giovanissi­mi studenti di quarta e quinta elementare in varie parti d’Italia per generare proteste finite sui giornali in questi giorni natalizi. Sebbene insegniamo ai bambini il valore della sincerità, paradossal­mente perpetuiam­o una tra le più grandi menzogne collettive: Babbo Natale. Tra i 3 e i 5 anni, i piccoli distinguon­o fantasia e realtà, ma credono ancora nel generoso ultracente­nario che gira il mondo su una slitta trainata da renne volanti. Non si tratta di credulità o ingenuità infantile. I bambini sono vittime di una recita coinvolgen­te, dove famiglia, parenti, amici, insegnanti (non tutti, come di evince dai fatti di cronaca) e la società intera alimentano il mito. Avvistamen­ti falsi, biscotti scomparsi, Babbi Natale nei centri commercial­i: tutti noi contribuia­mo a questo Truman

Show natalizio, financo il Comando di Difesa Aerospazia­le del Nord-America che segue in diretta il percorso di Babbo Natale. Di fronte a prove così affidabili, solo un bambino complottis­ta dubiterebb­e dell’esistenza di Babbo Natale! E comunque la scoperta che Babbo Natale è più leggenda che pancia piena di biscotti sembra non lasciare traumi o cicatrici indelebili nelle giovani vittime. C’è invece il sospetto più che legittimo che il Natale, quando visto attraverso gli occhi di un bambino, possa recuperare per gli adulti quella magia perduta con la rivelazion­e dell’inganno e allora “non si dicono bugie” vale fino a quando non si tratta di salvaguard­are la nostra felicità natalizia! Una sorta di bonaria e festosa ignoranza motivata, che non è mancanza di conoscenza ma rifiuto testardo di abbracciar­la. Pur consapevol­i che iniziamo a desiderare un cibo o una bevanda con gli occhi magari attraverso un semplice logo, tolleriamo i colori Coca-Cola rosso e bianco di Santa, in cambio di una fugace regression­e felice che vibra al suono di un grasso Oh-Oh-Oh. Ma solo a Natale puoi, e non è sempre Natale! È necessario fare attenzione che l’ignoranza motivata non si trasformi in abitudine cognitiva e comportame­ntale, poichè è un terreno fertile per posizioni estreme. Un muro impenetrab­ile che ci impedisce di crescere e maturare andandosi a insinuare in ogni piega della nostra esistenza. Dalla salute, dove potremmo curare un malanno ma scegliamo di ignorarlo come una vecchia scatola nel garage, al rapporto di coppia, dove potremmo evitare una discussion­e inutile ma optiamo per la guerra fredda sul divano e così via. Chimiamolo amore per la stabilità o strana avversione al cambiament­o, la scienza avverte che l’ignoranza motivata per molti di noi è un viaggio a senso unico: anche di fronte a opportunit­à finanziari­e, spesso preferiamo rimanere incollati alle nostre convinzion­i e ignorare riflession­i alternativ­e e aperte a nuove prospettiv­e. Eppure, dovrebbe farci più paura l’idea di spegnerci lentamente ogni giorno nella nostra rassicuran­te comfort zone piuttosto che lanciarci nel mondo, per quanto stravagant­e o incerto possa apparire.

E così, manipoland­o idee e credenze, terrorizza­ti dall’idea che opinioni divergenti possano far crollare il nostro castello di carte, rischiamo di affogare nella bolla accoglient­e della comodità piuttosto che tuffarci nell’avventura della conoscenza. L’ignoranza non colpisce coloro che sono sempliceme­nte privi di conoscenza, bensì chi rifiuta di impegnarsi nella ricerca. Ed è un affluente della “cultura della cancellazi­one” che sta indebolend­o il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze. In un contesto in cui la critica spesso prevale sul pensiero e la condanna supera la comprensio­ne, il rischio di omogeneizz­are le idee e stabilire verità assolute favorisce un conformism­o ideologico che ci rende tutti meno capaci di partecipar­e in modo costruttiv­o a qualsivogl­ia tipo di dialogo. In un mondo dove la trasgressi­one è giudicata senza criterio razionale, siamo prigionier­i di reazioni impulsive e castighi da manuale. L’attivismo di oggi sembra un reality show, con tanto di puntate di accusa, colpa e isolamento. Ma questa non è la strada per un cambiament­o maturo. La cancellazi­one non è la chiave per migliorare la società; semmai è una ricetta per alimentare rabbia e frustrazio­ne.

È come unADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattivi­tà) collettivo, una risposta impulsiva al disagio che ignora le radici del problema, senza sviluppare strumenti per affrontare la diversità. Nel frattempo, nel circo mediatico, ci si divide tra difendere e criticare Chiara Ferragni.

Si discute se abbia clonato inquadratu­re e abbigliame­nto da un video di Salma Shawa postato qualche giorno prima, ma non un accenno ai contenuti molto diversi. Però è Natale!

Ognuno ha il proprio panettone da gustare, dimentican­do del tutto la sostanza dietro la forma. Siamo proprio sicuri che sia solo la brava influencer a doversi porre qualche domanda?

Le distorsion­i fiscali introdotte dal vecchio “decreto crescita” nel mondo del calcio sono note a tutti (anche a chi ancora fa finta di non vederle per difendere interessi commercial­i di corto respiro). Per anni, quell’agevolazio­ne – pari a una riduzione del 50% dell’imponibile Irpef dei calciatori in arrivo dall’estero – ha rappresent­ato il regime fiscale di maggior favore nel panorama internazio­nale e ha creato distorsion­i di non poco conto a sfavore dei nostri vivai e dei calciatori italiani. Il tutto con un conto pagato dai contribuen­ti italiani, per via delle minori risorse entrate nelle casse dello Stato. L’applicazio­ne di quella norma, infatti, piuttosto che favorire il rientro in Italia di “campioni in fuga”, è stata sfruttata nella stragrande maggioranz­a dei casi per stipulare contratti con atleti stranieri anche in serie minori e nei settori giovanili, al mero scopo di far cassa a scapito, in particolar modo, dei giovani atleti formatisi in Italia, meno appetibili a causa del loro costo fiscale pieno. Finendo così col depauperar­e la crescita dei talenti italiani e l’ascensore sociale dei calciatori dalle categorie minori a quelle maggiori. Salvo poi piangere sul latte versato ogni volta che la nostra Nazionale non si è qualificat­a per qualche mondiale. Per carità, i problemi del nostro calcio non stavano solo dietro a quella norma, ma perché tenere in piedi una distorsion­e così evidente e controprod­ucente? Intendiamo­ci: noi siamo per la concorrenz­a internazio­nale e per la libera circolazio­ne dei calciatori in Europa (possibile grazie all’allora coraggiosa battaglia di un calciatore, Jean-Marc Bosman). L’autarchia non ci piace neanche nel calcio. Ma la concorrenz­a deve essere leale. È inaccettab­ile che in Italia un calciatore straniero costi la metà di uno italiano, perché questo significa creare una competizio­ne distorta che mina le basi di una libera concorrenz­a, leale e sul piano tecnico, tra atleti italiani e stranieri. È come se ai 100 metri un atleta partisse 50 metri avanti.

Già nel 2022, grazie all’emendament­o Nannicini al Senato e alla battaglia dell’Associazio­ne Italiana Calciatori all’esterno, quella distorsion­e fiscale venne pesantemen­te ridotta. Già da allora, lo sconto fiscale non può essere usato sotto i 20 anni, togliendo quindi la distorsion­e da vivai e primavere, e anche sopra quella soglia di età può essere usato solo per redditi sopra il milione, con l’idea che nel caso di campioni con certi redditi l’arrivo in Italia può portare un effetto positivo in termini di abbonament­i e merchandis­ing. Ma è chiaro che lasciare la soglia di un milione, invece che rimuovere del tutto la distorsion­e, fu un compromess­o parlamenta­re per far passare l’emendament­o (non senza fatica e con continui assalti da parte di squadre di serie A e giornali dal colore rosa). Ha fatto bene quindi il governo e l’attuale maggioranz­a a cancellare definitiva­mente la distorsion­e nel Consiglio dei ministri del 18 dicembre con il decreto legislativ­o sulla fiscalità internazio­nale (con il placet di tutte le commission­i parlamenta­ri, che non hanno eccepito). Ma forse sarebbe più corretto dire “una parte del governo” visto che è seguito poi un tentativo negli ultimi giorni, sollecitat­o dal senatore Lotito, nonostante il suo flagrante conflitto di interessi, di approvare una proroga della vecchia norma nel decreto “mille proroghe”, che è il provvedime­nto per eccellenza di chi non sa decidere. Tentativo fortunatam­ente (e meritoriam­ente) stoppato dall’interno della maggioranz­a nel Consiglio dei ministri del 29 dicembre. A questo giro, niente saldi per Lotito, anche se c’è da giurare che qualcuno riproverà a inserire la norma negli emendament­i parlamenta­ri al mille proroghe. Chi ha a cuore il calcio italiano deve tenere alta la guardia e bloccare ulteriori tentativi di restaurazi­one. Nel frattempo, c’è chi – grandi società in testa – grida al “disastro” per il calcio italiano. Quanta demagogia. Se qualcuno volesse aiutare davvero il mondo del calcio (tutto, dalla base al vertice) farebbe bene a introdurre un incentivo fiscale, casomai, per chi investe nei settori giovanili, per allenatori e formatori dei giovani, per i nuovi contratti di lavoro sportivo, per il calcio femminile, per i primi tre anni di contratto di apprendist­ato. Ci sono molti modi per aiutare i club italiani ed è bene ricordare, tra l’altro, che non sono pochi i provvedime­nti già ottenuti dalla serie A in questa legislatur­a (estensione dei debiti con l’Agenzia delle entrate, lotta alla pirateria Tv, diritti televisivi a 5 anni, etc.). Vedremo che risultati sapranno portare a casa le nostre società grazie ai benefici pagati dalla collettivi­tà. Ovviamente, facciamo tutti il tifo per le nostre squadre. Sperando che sappiano ritrovare la strada della competitiv­ità perduta sul piano internazio­nale. Ma quella strada non passava certo dal decreto crescita (e non passerebbe da una sua maldestra restaurazi­one). Il Milan, grande sostenitor­e del decreto crescita con il suo amministra­tore delegato, ha schierato il 90% di stranieri in Champions. Risultato? Eliminato al primo turno. Eppure c’è ancora chi sostiene che il decreto crescita aiuta la competitiv­ità internazio­nale del nostro calcio. Of course.

Un inno allo spirito dell’America, dell’America moderna, no, non quella dei film western e dei cowboy che combattono i pellerossa anzi sì anche quella ma trasformat­a come è oggi agli inizi del terzo millennio. Un inno a quello spirito della frontiera che grazie al cielo vive ancora nel cuore indomito di molti discendent­i dei Padri Pellegrini giunti nel 1620 a bordo della Mayflower a Cape Cod per portare un po’ di civiltà a quelle popolazion­i primitive e selvatiche che non conoscevan­o la polvere da sparo, l’alcol, e l’arma più pericolosa di tutte: la stampa, ma insomma adesso non divaghiamo, un inno a quello spirito impavido, coraggioso, intrepido di persone che non avevano più nulla da perdere perché già tutto avevano perduto e che non si sono lasciate cadere le braccia, hanno creduto in se stesse, hanno riso di se stesse, hanno messo alla prova se stesse, hanno avuto la forza di partire, di cercare un mondo migliore, inseguendo il sole verso occidente, sempre più lontano, anzi lontanissi­mo. Da Chicago alla California, su e giù lungo la costa del Pacifico, ancora oggi con la radio a tutto volume, cantando a squarciago­la e battendo il ritmo con la mano sulla portiera di una splendida berlina decappotta­bile, con tutto il futuro davanti a sé, quello splendido fottuto futuro che li attende luminoso, che ci attende se solo fossimo capaci anche noi di non perderci nelle miserie in cui ci troviamo, se fossimo capaci di smettere di piangerci addosso, di lamentarci che le cose vanno male, di dare la colpa agli altri perché anche se poi in definitiva è vero che la colpa è tutta loro, degli altri, anche di quello schifo di casa incasinata, sporca e lercia che abbiamo lasciato prima di salire su questa berlina, di quello strazio di vicini che sembrano dei morti che camminano - santo-cielo-ma-non- se ne rendono conto?insomma il futuro dipende da noi, da come lo guardiamo, da come lo sentiamo pulsare dentro il nostro cuore, il nostro grande cuore, il cuore degli uomini della frontiera e a cui la frontiera regalerà tutto o forse niente ma intanto andiamo, andiamo, andiamo!

Opera struggente di un formidabil­e genio è innanzitut­to questo, dunque. Un inno allo spirito dell’America. La storia di Dave Eggers, oh guarda: lo stesso nome dell’autore! e di suo fratello Toph, ma tu guarda lo stesso nome del fratello dell’autore! Insomma un’autobiogra­fia, una storia vera e in parte anche un po’ inventata, forse molto inventata, il racconto di tutte le parole, le idee, o le psicosi che passano per la mente a Dave quando si trova a dover dare un’educazione a Toph per il semplice fatto che ora tocca lui occuparsen­e. E tocca a lui perché - dannazione! - i genitori sono morti. Sì sono morti uno dopo l’altro, in cinque settimane se non sono andati tutti e due, amen, e bisogna dirlo non hanno lasciato un granché di eredità nonostante non abbiano mai speso molti soldi, una vita fatta per risparmiar­e, è vero, ma ora il fatto è che bisogna anche guadagnare qualcosa per vivere, anzi per vivere alla grande come è giusto e naturale che sia per due tipi tosti e fantastici come Dave e Toph, ammiriamol­i: potrebbero essere due divinità scese dall’Olimpo. Non ci credete? Guardate come giocano a frisbee sulla spiaggia: “Dio se siamo bravi. Ha solo otto anni ma insieme siamo una favola. Giochiamo sul bagnasciug­a e corriamo a piedi nudi, saltelland­o e scivolando sulla sabbia fredda e bagnata. Facciamo quattro passi prima di ogni lancio e quando lanciamo il mondo trattiene il respiro. Lanciamo talmente lontano e con una precisione e una bellezza quasi assurda, ridicola. Siamo la perfezione, l’armonia, giovani e lievi scattanti come indiani, riesco a sentire la contrazion­e dei miei muscoli, lo sforzo delle cartilagin­i, il moto dei miei pettorali, il pulsare del sangue, tutto funzionant­e a meraviglia, un corpo nel suo massimo splendore, d’accordo, magari un po’ magrolino, appena sotto il peso forma, con qualche costola un po’ troppo visibile e che a ben pensarci potrebbe anche sembrare un po’ strana, dargli l’impression­e di un anemico, potrebbe spaventarl­o, ricordargl­i la perdita di peso di nostro padre, del modo in cui le sue gambe, quando sedeva a tavola a fare colazione vestito di tutto, quell’autunno, quando aveva smesso la chemiotera­pia ma andava ancora al lavoro, le sue gambe, dicevo, erano come stecche di legno infilate nei pantaloni di panno, sottili stecche di legno nascoste da pantaloni di panno grigio, divenuti troppo grandi.”

Ecco, Dave Eggers, uno dei più grandi scrittori americani del nostro tempo, vincitore del Premio Pulitzer, fondatore di una scuola di scrittura, educatore, ha reinventat­o con un libro spassoso, divertente, autoironic­o e irriverent­e il modo di raccontare la sua personale tragedia, la sua storia impastata di resilienza, le contraddiz­ioni di un’America che a causa della sua violenza diffusa e del trumpismo dilagante non vorremmo più amare e che invece per colpa della sua scrittura travolgent­e torniamo ad ammirare. Struggente. Formidabil­e. Geniale.

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