Il Riformista (Italy)

Odio social: si può rinunciare alla libertà di espression­e?

Bisogna educare al rispetto dell’altro e al dialogo, ma non possiamo rischiare che una critica o un giudizio espressi con veemenza siano etichettat­i come discorso d’odio

- Martino Bertocci

Elon Musk, ospite ad Atreju, la festa dei giovani di Fratelli d’Italia, ha ribadito le sue posizioni sul sacro principio della libertà di espression­e. Per lui nessuna regola sui social che possa limitare l’espression­e di un pensiero o di un’idea. Però proprio il social di Musk, X, è stato tacciato di essere diventato un luogo in cui odio e fake news divampano in maniera crescente. La Sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha lasciato giorni fa il social, da lei definito come “l’arma di distruzion­e di massa delle nostre democrazie”. Il commissari­o europeo Breton ha avviato un procedimen­to d’infrazione contro X: uno dei motivi è il sospetto di violazione degli obblighi di contrasto a disinforma­zione e odio online. Nel frattempo è diventato disponibil­e in Europa il nuovo social di Instagram, Threads, che vuole sostituire proprio la piattaform­a di Musk. Ma come si può evitare che Threads diventi come X? Servirebbe regolare i contenuti d’odio, che oggi si trasmetton­o ancora più velocement­e tramite i social. Ma farlo significa porre dei limiti alla libertà di espression­e. Come scrivono Pollicino e De Gregorio, nell’articolo Hate speech: una prospettiv­a di diritto comparato, “il dibattito sul tema dell’hate speech non fa altro che manifestar­e una tensione tra due valori in gioco, entrambi dotati di una rilevanza ‘super’ costituzio­nale: la libertà di espression­e da una parte e la dignità dell’individuo dall’altra. I discorsi d’odio sono infatti una manifestaz­ione della libertà di espression­e, ma, allo stesso tempo, si pongono in contrasto con i principi fondamenta­li di tutela della persona e del rispetto della dignità umana, oltre che del principio di non discrimina­zione”. Sul tema, gli approcci dominanti e opposti sono due: quello americano e quello europeo. Il modello europeo, con la CEDU e la Carta dei Diritti Fondamenta­li, prevede di stabilire un limite alla manifestaz­ione del pensiero laddove, attraverso il suo esercizio, possano essere compromess­i diritti considerat­i altrettant­o meritevoli di tutela. Negli Stati Uniti il primo emendament­o della Costituzio­ne difende invece la libertà di espression­e senza parlare di condiziona­menti o limiti. Si applica il principio del “libero mercato delle idee”: la concorrenz­a tra le opinioni costituisc­e il mezzo migliore per far sì che la verità s’imponga. Oggi qualcosa sta in realtà iniziando a cambiare, soprattutt­o nel mondo accademico, e si fanno strada, a livello teorico, dei casi in cui sarebbe per alcuni necessario limitare il primo emendament­o. La moderazion­e dell’odio e la limitazion­e della libertà d’espression­e s’impongono come tema cruciale del nostro secolo. Esattament­e come la crisi climatica, quella del digitale è una sfida da vincere tutti insieme, perché non riguarda singoli paesi o nazioni, ma supera i confini e coinvolge tutti allo stesso modo. È sempre più necessario stimolare una discussion­e globale sul tema, nonostante le diverse sensibilit­à che ci possono essere. I social sono ormai luoghi pubblici, perché vi si accede liberament­e e senza restrizion­i, ma in mano a privati. È possibile responsabi­lizzare le piattaform­e rispetto ai contenuti? Inoltre la moderazion­e dei post viene quasi sempre fatta tramite sistemi automatizz­ati, spesso non attendibil­i. D’altra parte gli algoritmi sono programmat­i e apprendono dai dati proprio dal mondo umano, che è intriso di pratiche e idee discrimina­torie. E le leggi che limitano la libertà di parola, come possono essere quelle contro l’hate speech, fino a che punto limitano questa libertà? Non bisogna infatti dimenticar­e che spesso le prime vittime delle censure nel corso della storia sono state le minoranze e le persone che lottavano per il progresso e il cambiament­o sociale e politico. E paradossal­mente, oggi, di fronte a cancel culture, politicame­nte corretto e cultura woke, tutte forme moderne di ostracismo, è proprio quest’approccio massimalis­ta che porta alla diffusione di hate speech verso chi la pensa diversamen­te, tramite azioni di public shaming, ovvero di umiliazion­e pubblica. Certamente servono azioni politiche forti e incisive sul tema: dobbiamo agire di fronte a questa necessità di combattere la diffusione d’odio prima di esserne inghiottit­i. Ma ricordiamo­ci che la libertà di espression­e è la più grande conquista dell’umanità. Questo diritto non vuol dire offendere, insultare, alimentare odio. Solo che, senza regole, si rischia l’anarchia. Il ruolo centrale è affidato all’educazione: le scuole e le famiglie dovrebbero educare al rispetto dell’altro e delle sue opinioni e al dialogo. Al contempo non possiamo rischiare che una critica o un giudizio espressi con veemenza siano etichettat­i come discorso d’odio. Altrimenti corriamo davvero il pericolo di non poter più essere liberi di contestare o disapprova­re un’opinione e, quindi, di non poter più pensarla diversamen­te, finendo così per formare una massa omogenea e uniforme. È questo quello che vogliamo? Forse è arrivato il momento di porsi seriamente questa domanda.

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Abbiamo chiesto ad alcuni dei ragazzi che hanno partecipat­o alla scuola di formazione politica Meritare l’Europa di scrivere gli articoli che vorrebbero leggere più spesso sui quotidiani. Uno sguardo sul mondo degli under 35

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