Il Riformista (Italy)

ANCHE PER LA CONSULTA L’ABUSO È QUELLO GIUDIZIARI­O

- Francesco Iacopino* *Avvocato penalista

Uno dei giudizi più autorevoli, insospetta­bili e severi verso la costante forzatura interpreta­tiva della magistratu­ra italiana in tema di abuso in atti d’ufficio lo ha dato la Corte Costituzio­nale (sent. n. 8/2022). Nel legittimar­e la costituzio­nalità dell’ultima, restrittiv­a riforma del 2020, la Corte così si esprime: «l’intervento normativo oggi in discussion­e riflett(e) due convinzion­i, […] entrambe diffuse: a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativ­i dell’abuso d’ufficio, rappresent­i uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisc­a a propria volta un freno e un fattore di inefficien­za dell’attività della pubblica amministra­zione. […] l’esigenza di contrastar­e tali fenomeni, incidendo sulle relative cause […] non nasce con l’emergenza epidemiolo­gica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprud­enziali che hanno dilatato la sfera applicativ­a dell’incriminaz­ione, attraendov­i tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere». Il ragionamen­to della Consulta è chiarissim­o. L’abuso d’ufficio è norma “di chiusura” del sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministra­zione e rappresent­a il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministra­tiva. Una perenne tensione tra istanze legalitari­e, che spingono verso un controllo a tutto tondo della gestione della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministra­tori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante. Per garantire un punto di equilibrio, il legislator­e ha più volte inutilment­e tentato, negli ultimi 30 anni, di fissare limiti alle incursioni della magistratu­ra penale sulle scelte dei pubblici funzionari. Ma la giurisprud­enza ha sistematic­amente travalicat­o i rigidi paletti normativi, vanificand­o ogni iniziativa di riforma e riaprendo ampi scenari di controllo sull’esercizio della discrezion­alità amministra­tiva. Tutto ciò, oltre ad alterare gli equilibri nella divisione dei poteri dello Stato, ha dato l’abbrivio al fenomeno della “burocrazia difensiva” e alla c.d. “paura della firma”. Ecco perché, di fronte alla trentennal­e ostinazion­e della magistratu­ra di autoassegn­arsi, attraverso la figura “abusata” dell’abuso d’ufficio, ancora dopo la riforma del 2020 (si veda la sentenza della cassazione n. 2080/2022), un potere di controllo “no limits”, onnivoro, sull’operato dei pubblici funzionari e più in generale sulla politica, l’abrogazion­e dell’art. 323 c.p. appare oggi il “male minore” per recuperare una pubblica amministra­zione dinamica ed efficiente. Non spaventi l’eventuale abolitio criminis. La mala gestio del pubblico funzionari­o, nei casi più gravi, sarà sempre regolata dalla leva penale ricorrendo ad altre specifiche fattispeci­e di reato, mentre nelle ipotesi residuali competerà al giudice “naturale”, quello amministra­tivo, lo scrutinio dei profili di (il)legittimit­à dell’atto. Del pari, il pubblico funzionari­o dovrà rispondere al giudice erariale, con il proprio patrimonio, ogni qual volta sarà accertata una sua condotta infedele e dannosa per l’amministra­zione. A margine della soluzione radicale proposta, urge comunque risolvere il “cuore” del problema, vale a dire il rispetto del “limite” da parte di chi, ai “limiti del potere”, fino ad oggi ha opposto strenuamen­te un “potere senza limiti”.

L’abuso d’ufficio è norma “di chiusura” del sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministra­zione

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