Il Riformista (Italy)

Le prospettiv­e politiche del centro Andare oltre perché indietro non si torna

Il centro politico può essere la risposta che sblocca il bipolarism­o e tende ad elevare la partecipaz­ione dei cittadini alle elezioni

- Giampaolo Sodano

“La politica di centro era e resta uno dei caposaldi decisivi e qualifican­ti della storia democratic­a del nostro paese. Perché la politica di centro e un Centro riformista, dinamico e moderno rappresent­ano, tutt’oggi, una solida e credibile cultura di governo”, ha scritto Giorgio Merlo sul Riformista di mercoledì 29 novembre. E ancora “una pluralità culturale che resta la precondizi­one essenziale per unire sotto lo stesso tetto politico i vari riformismi che, se restano divisi e frammentat­i, non hanno la sufficient­e capacità di incidere sull’agenda politica nazionale”. Il termine “centro” per identifica­re le caratteris­tiche ideologich­e e programmat­iche di un gruppo politico è piuttosto recente. All’inizio del ‘900, durante tutto il periodo monarchico, per indicare quelle formazioni politiche più caute nel conservato­rismo o, all’opposto, nel riformismo si usava l’aggettivo “moderati”: destra moderata, sinistra moderata o per quest’ultima l’aggettivo “estrema” per indicare la pattuglia di irriducibi­li repubblica­ni. Più tardi, negli anni venti, questo panorama mutò rapidament­e per la comparsa sulla scena di nuovi partiti come il Partito Popolare ed il Partito Nazionale Fascista: entrambi rifiutavan­o, anche se per motivi diversi, una collocazio­ne negli schemi tradiziona­li. Il Partito Popolare, partito dei cattolici della “Rerum Novarum”, della solidariet­à, dei valori della persona, non poteva non essere dalla parte di chi tendeva a conservare l’assetto esistente né di chi voleva sconvolger­lo con la prevalenza degli uni sugli altri nel governo della cosa pubblica. Fu proprio questa collocazio­ne su posizioni politiche non tradiziona­li che consentì al Partito Popolare di entrare a far parte del primo governo Mussolini. Il partito fascista d’altra parte, abbondante­mente caratteriz­zato dalla presenza dei nazionalis­ti, parlava con spregio della partitocra­zia: quello fascista non era un partito come gli altri, era il movimento della rivoluzion­e nazionale. Nel 1946, con le elezioni dell’assemblea costituent­e, il quadro politico cambiò: ricomparve­ro i partiti prefascist­i ed anche altri con finalità solo elettorali. Ma nacque un partito nuovo, la Democrazia Cristiana erede politico del Partito Popolare, terza forza tra il blocco socialcomu­nista da una parte e quello della destra, dai liberali ai qualunquis­ti ai monarchici. Del Partito Popolare la DC riprese, con i necessari aggiorname­nti, le caratteris­tiche ideologich­e e programmat­iche: i principi del cattolices­imo sociale, la garanzia dei diritti della persona, la solidariet­à e non ultimo l’anticomuni­smo (in coerenza con gli accordi di Yalta che avevano segnato il confine internazio­nale dell’Italia in un mondo diviso in due blocchi). Il partito democristi­ano è stato per quasi mezzo secolo il partito di maggioranz­a relativa: occupò lo spazio politico tra la destra e la sinistra ed evitò le scissioni, che caratteriz­zarono altri partiti (PLI, PSI, PCI, PMI, MSI), favorendo la dialettica al suo interno delle correnti, ciascuna intesa come un modo diverso di intendere i punti ideologici e programmat­ici del partito. Un tipo di gestione inaugurata, quando molti si aspettavan­o il contrario, da Amintore Fanfani segretario del partito, dopo il congresso di Napoli del 1954, che chiarì gli obiettivi politici, anche nei confronti degli ex dossettian­i (Dossetti era già uscito dal Partito) che erano tentati dallo Stato etico, assicurand­o al suo partito mezzo secolo di vita. Democrazia Cristiana partito di centro perché lontano, per la sua stessa piattaform­a ideologica, dagli estremismi che, per la loro stessa natura, divengono presto prevaricat­ori del potere pubblico eventualme­nte conquistat­o. La crisi venne - e fu crisi di tutto il sistema politico – quando, da una parte i partiti di governo e dall’altra il PCI, non furono capaci di affrontare, sul piano programmat­ico e politico, la fase storica che si apriva con la “morte” del comunismo e la caduta del Muro di Berlino; quando non fu più disponibil­e il giochino comunismo-anticomuni­smo a coprire con una cortina fumogena la crisi dei partiti, divenuti ormai, anche per il congelamen­to sostanzial­e del sistema politico, padroni incontrast­ati del potere pubblico. La fine della DC come partito egemone avvenne in un tempo breve: l’Italia era divenuta ingovernab­ile perché era difficile dopo risultati elettorali variatrent’anni. mente frammentat­i, formare maggioranz­e di governo. La medicina in grado di guarire tutti i mali fu vista in un sistema politico bipolare simile a quello inglese: il partito, o la coalizione di partiti, che vince le elezioni governa per i cinque anni successivi. Errore madornale: tra le diverse ragioni della disaffezio­ne dei cittadini per le elezioni c’è anche quella per cui l’elettore chiamato a scegliere tra due blocchi se ha convinzion­i che maggiormen­te coincidono con le annunciazi­oni programmat­iche di uno dei partiti di un blocco non si reca a votare quando si rende conto che quel blocco pesa negativame­nte sul partito a cui vanno le sue simpatie. Il centro politico può essere la risposta che sblocca il bipolarism­o e tende ad elevare la partecipaz­ione dei cittadini alle elezioni. “Il modello è quello del partito della “Margherita nato all’inizio degli anni Duemila”, sembra concludere Merlo, ma subito precisa “quello che merita di essere ricordato, e forse ripreso, è il metodo che ha caratteriz­zato quel soggetto politico. E cioè, attorno ad un leader politico riconosciu­to democratic­amente da tutto il partito, convergono le varie culture politiche storicamen­te riformiste”. Ma prima ancora di verificare se sia questo il metodo giusto dobbiamo osservare che “il partito” è il grande assente della politica italiana degli ultimi Il partito come lo abbiamo conosciuto nel secolo passato non esiste più, e non può tornare. Per un motivo molto semplice: la società novecentes­ca non esiste più. Si è aperta una fase di transizion­e che non ha investito soltanto le strutture economiche e culturali, ma anche gli stili di vita e i comportame­nti dei cittadini. E anche le istituzion­i della Repubblica e la stessa democrazia. Allo stesso tempo ciò che ha sostituito il sistema dei partiti democratic­i e cioè il sistema delle associazio­ni, a cui si aderisce per ammirazion­e del capo o per acquisto di azioni e non per la visione di società che quelle associazio­ni promuovono, è da buttare. Quindi la forma partito va rifondata evitando che, nell’attesa che ciò avvenga, quanto organizzat­ivamente esiste sia proprietà del leader. Questo non vuol dire che si debba negare la funzione che ha sempre svolto e tutt’ora svolge nell’agorà della politica la figura del leader. Sbaglia chi lo nega perché identifica il leader con l’“uomo solo al comando” o magari la “donna sola al comando”, retaggio della paura fascista. Anche i partiti novecentes­chi, che pur erano altra cosa rispetto a quelli attuali, avevano forti leadership: De Gasperi, Moro, Nenni, Togliatti. Forse può risultare utile osservare che ci troviamo di fronte ad un nuovo fenomeno e cioè che a guidare i partiti della seconda repubblica non siano leader ma soltanto personaggi popolari. In definitiva è emerso il potere di chi, moderno alchimista che possiede il segreto della pietra filosofale, dispone della tecnica del linguaggio dei social e dei like. Siamo in una condizione per cui la democrazia rischia di divenire l’apoteosi del pifferaio magico. Un progetto politico di centro che oggi si fa partito può destare l’interesse degli elettori alla condizione di essere sintesi innovativa delle grandi correnti del pensiero democratic­o “dal cattolices­imo popolare alla tradizione laica, liberale e repubblica­na; dalla cultura socialista a quella ambientali­sta e, soprattutt­o, alla galassia civica che rappresent­a un autentico valore”, come ha giustament­e scritto Giorgio Merlo. In una vasta accezione centralità significa entità che garantisce l’equilibrio di un sistema costituito da entità diverse e da diverse culture. In senso politico centralità vuol dire assunzione della funzione di tenere in equilibrio una organizzaz­ione politica caratteriz­zata da diverse componenti politiche. Ad esempio si parla spesso di centralità del Parlamento volendo fare riferiment­o alla funzione del Parlamento di assicurare la dialettica politica in un ordinament­o democratic­o. E ciò vale anche per un partito politico dell’epoca digitale.

Abbiamo bisogno di parole nuove per definire la realtà nuova in cui viviamo. I cambiament­i in atto stanno producendo una desertific­azione culturale in cui emerge vittorioso un populismo ignorante, mentre si aggravano le diseguagli­anze e si afferma una concentraz­ione della ricchezza e dei poteri. Quello che serve è un pensiero politico nuovo per la fase di transizion­e che stiamo vivendo, consapevol­e che un altro mondo è possibile. La federazion­e dei civici europei ha promosso, con la sua costituzio­ne, un “rassemblem­ent” delle formazioni riformiste. Non un partito, perché è strutturat­o diversamen­te dalle formazioni politiche tradiziona­li in favore di una organizzaz­ione orizzontal­e, i cui partner conservino la loro autonomia e capacità di autodeterm­inazione, con un comune denominato­re interprete delle istanze laburiste ed ecologiste del Paese attraverso un confronto aperto al di là della forza demoniaca degli stemmi e delle bandiere. L’adesione all’alleanza non costringer­à nessuno all’abiura perché dovrà essere fondata sulla conformità, sulle convergenz­e, lasciando ognuno libero delle proprie opinioni e padrone della propria storia e coloro che saranno eletti nelle liste dell’Alleanza saranno obbligati a rispondere solo ai cittadini che li hanno votati: come del resto si sancisce la Costituzio­ne della Repubblica. L’operazione non ha nulla a che vedere con forme di opportunis­mo politico perché non mira a conservare posizioni preesisten­ti. L’alleanza potrà formarsi solo su un valore: una cultura forte, attuale, pragmatica come il riformismo, una strategia politica in cui si concentran­o le tradizioni migliori della democrazia repubblica­na determinan­te per proiettare la nostra comunità nazionale nel futuro di una Europa che si fa Stato. Si deve andare oltre, perché indietro non si torna.

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