Elis, università del lavoro
È un centro di formazione professionale, acronimo di educazione, lavoro, istruzione, sport. Quattro colonne e una missione: l’alleanza
La formazione professionale non è ciò che in molti pensano. Se fatta bene è la più alta forma di educazione e tante volte aiuta chi dalla scuola scappa. C’è chi descrivendomela, una volta, l’ha paragonata alla rete dei trapezisti. Spesso alla formazione arrivano i ragazzi che la scuola l’hanno iniziata ma poi l’hanno abbandonata e spesso l’abbandono arriva dopo la frequenza di un istituto professionale. C’è chi continua a pensare che i percorsi educativi non debbano dialogare con il mondo del lavoro e delle imprese e i ragazzi poi ci meravigliamo se scappano da un percorso che loro pensavano li facesse dialogare con il mondo del lavoro per poi trovarsi a frequentare nessun laboratorio e dodici o sedici materie diverse. Forse anche per questo motivo che in tanti sperano che la sperimentazione del Ministro Valditara adesso in Senato possa trovare dialogo in Parlamento per migliorare i percorsi degli istituti professionali. Elis è un centro di formazione professionale. Quando entri in luoghi come questo, stare, ascoltare e soprattutto guardare ti aiuta a capire che tra scuola, formazione, lavoro deve esserci dialogo. Te ne rendi conto quando parli con Pietro Papoff e Pietro Cum, rispettivamente Direttore Generale e Amministratore Delegato. Lo capisci soprattutto guardando le facce dei ragazzi, soprattutto i loro occhi quando ti parlano di ciò che hanno imparato, capito, sono riusciti o hanno semplicemente provato a fare. Basta mezza giornata in luoghi così per capire realisticamente e senza pregiudizi ideologici che tra scuola, formazione e lavoro non ci deve essere semplice “alternanza” ma una vera e propria “alleanza”. Elis è l’acronimo di educazione, lavoro, istruzione, sport. Quattro colonne e una missione. Era il 21 novembre 1965 quando in un quartiere periferico della capitale nasce un centro di formazione professionale chiamato a promuovere l’inserimento sociale e lavorativo dei giovani. Alla cerimonia d’inaugurazione sono presenti San Paolo VI e San Josemaría, fondatore dell’Opus Dei e fu il primo a chiedere al secondo di costruire un centro di formazione. Dopo quasi sessant’anni Elis porta avanti quelle quattro colonne e quella stessa missione nonostante i cambiamenti, i nuovi strumenti, insegnamenti, metodologie. È cambiato adeguando il tutto alle competenze e ai tempi ma sempre con quella attenzione ai giovani. Oggi tutto questo conta oltre 500 persone suddivise in 25 unità organizzative, a cui si aggiunge la rete nazionale di scuole con cui vengono realizzate attività di orientamento e formazione, e le 129 organizzazioni, tra grandi aziende, piccole-medie imprese, start up, università e centri di ricerca, che aderiscono ad un Consorzio, nato per adeguare i percorsi alle necessità. Il Report Sociale che il Consorzio realizza ogni anno ripercorre un anno di attività e analizza l’impatto sociale che hanno avuto i progetti realizzati. Numeri che raccontano tante singole storie, di ingresso di studenti nel mondo del lavoro e la realizzazione di progetti d’innovazione e sviluppo con attenzione alla responsabilità sociale d’impresa, di start up e idee che crescono, di ragazzi cresciuti che realizzano un percorso personale e professionale che tornano e magari portano la loro esperienza ai più giovani. In Elis si ha chiaro che “siamo tutti sulla stessa barca”, l’imprenditore che non trova figure professionali adeguate, il capo reparto che vede i propri operai specializzati andare in pensione e pochi giovani che entrano, i ragazzi che hanno lasciato la scuola, gli educatori che non vogliono fare morale ai giovani ma accompagnarli in un percorso. Il Consorzio è nato come una “barca”, siamo tutti quanti a bordo. Qui ognuno si deve sentire parte dell’equipaggio. Il Consorzio
ogni sei mesi ha un nuovo presidente che viene scelto tra le aziende aderenti, e che ha un compito non banale: coinvolgere le altre consorziate nell’analisi di una problematica di particolare attualità nel mondo delle imprese e del lavoro, elaborare insieme agli altri un piano d’intervento, farlo partire e adeguarlo alle necessità. Grazie ai progetti di semestre, sono nate negli anni iniziative che costituiscono oggi attività portanti di Elis, come le attività di orientamento nelle scuole superiori e di alternanza tra scuola e lavoro o i percorsi di accelerazione dedicati alle startup. Da quando hanno iniziato a tenere i conti dei tanti ragazzi che hanno concluso un percorso formativo e che hanno trovato lavoro stabile, il conto è arrivato a quasi 12.000 e la percentuale dei ragazzi formati e diplomati che hanno trovato lavoro è del 98%. I numeri sono importanti, dicono molto, ma non dicono tutto. “Nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista valore dall’Amore con cui viene compiuta”, questa frase di San Josemarìa – fondatore del centro Elis – riecheggia nella bella sede romana. Amava definire l’Elis una “università del lavoro”. Come tutte le università ci sono gli allievi e ci sono i maestri solo che non sono solo docenti in senso stretto ma spesso sono operai, tecnici, professionisti, capi reparto, dirigenti. Tutti però lasciano ai ragazzi qualcosa, quel qualcosa che sommato costruisce il “bene comune”. Ogni lavoro – qui si ricorda spesso e volentieri - portato avanti con spirito di servizio, è cammino di santità personale e strumento di costruzione del bene comune.
Esistono le rage room, stanze in cui, pagando, si può entrare e distruggere tutto, per sfogare la propria rabbia e uscirne più tranquilli; si possono anche portare oggetti per rendere l’esperienza più personale e soddisfacente. Ci sono poi lunghe camminate in montagna in cui lo sforzo fisico costante per ore permette di sfogarsi e di tornare a casa stanchi, ma sereni. E poi c’è Threads, il nuovo social sbarcato in Europa a dicembre.
Secondo i più, Threads deve (o doveva) essere la risposta di Zuckerberg, proprietario dell’universo Meta ovvero di Facebook, Instagram e Whatsapp, a X di Musk, in una sfida tra miliardari che dal Colosseo dove doveva tenersi per la gioia del ministro Sangiuliano è rimasta nel mondo della finanza. In realtà, è facile capire che Threads nasce come una risposta a TikTok, app cinese di condivisione di video brevi: è questa la minaccia più grande per l’impero Meta, non Twitter. TikTok è usata dalla stragrande maggioranza della GenZ al mondo e ormai non solo per passare il tempo. Ma, anzi, per informarsi, fare shopping, capire trend e anticipazioni, seguire influencer e artisti: e col passare del tempo, sta diventando l’unico (o il maggiore) punto di accesso al web dei giovani. Cosa che Instagram non sta facendo: i reels, i video brevi, funzionano ma non allo stesso modo, così come le stories sono ormai amate da chi ha qualche anno in più, tipo i buongiornissimi su whatsapp, e meno da chi è più giovane. Così la scorsa estate Meta ha lanciato Threads, app che in pochi giorni ha raggiunto i 100 milioni di utilizzatori, diventando il social che ha toccato questo traguardo nel minor tempo. In altrettanto poco tempo l’app è caduta nel dimenticatoio o cancellata da molti dei suoi primi utilizzatori. In Europa e quindi in Italia, per via di alcune modifiche legate alle normative sulla protezione della privacy, è sbarcata a dicembre. E cosa possiamo trovare su Threads?
Rutti in primis: tantissimi rutti. Poi insulti di ogni genere, dai più scontati ai più creativi. Complotti, post virali su qualsiasi tipo di estremismo politico, e insulti a chi prova a sottolineare la vacuità delle teorie complottiste. Emoji a non finire. Un sacco di foto, che credo sia abbastanza strano in un social che nasce come condivisione di testi. Banalità che neanche nei gruppi Facebook di inizio anni 2000. E, soprattutto, tantissimi vocali: non c’è post di un politico, un influencer, un cantante, un vicino di casa in cui non ci siano risposte con brevi registrazioni vocali. Contenenti cosa? Esatto, insulti o rutti. Due sono gli aspetti che colpiscono: da una parte come il social sia diventato in poco tempo una valvola di sfogo dove gli utilizzatori si sentono liberi di pubblicare qualsiasi cosa come se quel posto fosse un mondo a parte, distaccato dalla realtà, dove certi comportamenti siano leciti e normali. Come una rage room, ma in cui tutti possono vedere quello che dici e che fai, tutti. Peraltro senza la minima forma di moderazione o censura (che arriverà, parola di Meta), con la possibilità di trovare anche molto facilmente contenuti non solo brutti o stupidi, ma anche illeciti. È qua che fallisce il primo obiettivo di Threads: in poco tempo è diventata la copia peggiore di Twitter/X: dov’è finito il posto dove creare conversazioni meno arrabbiate ed estreme, come si era ripromesso Mosseri, il responsabile di Instagram?
Il secondo aspetto è l’età, presunta, di chi su Threads si lascia andare a comportamenti e post che nella vita reale, si spera, non avrebbe mai. Non adolescenti in cerca di attenzione, non maranza in cerca di nuove risse, non bambini che si vogliono sentire grandi: adulti. Non stupisce visto che anche in USA, dove Threads è attivo ormai da qualche mese, circa il 70% della GenZ non ha scaricato l’app e chi l’ha fatto ha cercato solo divertimento e non informazioni o una semplice alternativa a X. Qua fallisce anche il secondo obiettivo di Meta: la nuova app non sta diventando l’alternativa più culturale e aperta a X né sta sostituendo TikTok nell’utilizzo quotidiano da parte dei più giovani. Di fatto, Threads è l’ennesimo social media basato su un algoritmo che premia le performance dei post e i follower degli autori. Esattamente come tutti gli altri.
Va anche detto che cercando bene si possono trovare post interessanti, discussioni costruttive e critiche aperte: la ricerca è difficile e interrotta da meme e rutti, ma si può davvero trovare qualcosa di interessante. Però, come su Twitter. In conclusione, Threads si è affermato oggi (vedremo in futuro) come un rifugio non per ragazzini ma per chi ha qualche anno in più, un luogo dove sfogare frustrazioni perlopiù o comunque un luogo dove gli ultimi dieci/quindici anni di vita digitale sui social media ha influenzato l’utilizzo anche di questa app, portando sia alla disperata ricerca di visibilità e follower, sia alla creazione di contenuti banali. Non è la nuova app dei ragazzi: è la nuova app in cui la GenZ vede, e spesso prende in giro, le generazioni precedenti.