Javier Milei, si può vincere dicendo la verità
Ma non si può non guardare perlomeno con attenzione a quello che sta facendo il nuovo presidente argentino
Sebbene – immersi come siamo nella dittatura dell’istante - non ci siamo più abituati, un’esperienza di governo non si giudica mai dalle intenzioni o persino dai primi atti di governo, ma solo sul medio periodo. O in certi casi persino nel lungo. Perciò non è sano urlare al Messia o operare santificazioni di ogni tipo, soprattutto in un paese come quello, che ne ha già viste di tutti i colori e che ha già vissuto innumerevoli illusioni finite male o malissimo. Così come, infine, ogni programma di governo anche radicale non deve mai neanche solo dare l’idea di minacciare le libertà civili e politiche dei propri cittadini, a cominciare con quella di manifestare liberamente il proprio pensiero. Fatte queste doverose premesse, non si può non guardare perlomeno con attenzione a quello che sta facendo il nuovo presidente argentino, Javier Milei.
Nel suo discorso di insediamento, quello in cui normalmente si rinnovano le più ardite promesse fatte in campagna elettorale, ha detto alla folla “aprite bene le orecchie: non ci sono soldi”. E ha ricevuto in cambio un’ovazione. E non stava parlando né ad una platea svizzera né ad una olandese: ma ad un paese che in decenni di populismo era stato abituato a considerare la spesa pubblica come un contenitore infinito e gratuito a cui attingere liberamente.
Per rafforzare il concetto, ha proibito di utilizzare la parola “gratis” ai servizi offerti dal settore pubblico: per far comprendere alla gente che quei beni o servizi non sono affatto gratis, ma pagati con le tasse dei contribuenti (chissà come avrebbe reagito Milei al “graduidamente” di Giuseppe Conte).
In un’economia fortemente protetta, ha abolito il controllo dei prezzi e le restrizioni al commercio internazionale; ha lanciato un massiccio piano di liberalizzazione di settori economici e di privatizzazione della mastodontica serie di aziende controllate dallo Stato. Tenendo fede alle promesse fatte in campagna elettorali (e rese celebri dal mitologico video social dove strappava i nomi dei dicasteri urlando “Afuera!”) ha cancellato dieci ministeri, rendendo l’organizzazione del governo più funzionale e snello. Ha iniziato una brutale ma decisa azione di riduzione della spesa pubblica, bollata – in alcune sue componenti – come modo per comprare consenso politico.
Indubbiamente il piano di risanamento macroeconomico comporterà anche riduzioni della spesa sociale ma intanto il presunto “affamatore del popolo” ha raddoppiato l’assegno universale sui figli e aumentato del 50% la tessera alimentare.
E in politica estera si è affrettato a disdire l’adesione dell’Argentina ai BRICS, ribadendo senza ambiguità che il suo paese vuole avere come punto di riferimento il modello politico dell’Occidente e degli Stati Uniti.
Uno degli errori più grandi che si possono fare in economia è pensare che le azioni di politica economica intraprese in un paese A in un momento B possano automaticamente essere adatte anche per un paese C e magari in un momento D.
Tuttavia, chi come me è convinto che il problema dell’Italia non sia il troppo mercato (ma il troppo poco) e non sia la poca spesa pubblica (bensì la troppa), non può non guardare con un po’ di curiosità a quello che sta avvenendo laggiù “alla fine del mondo”. Soprattutto per un aspetto: sognare che, in un paese dove ancora adesso si prendono milioni di voti promettendo redditi di cittadinanza e superbonus, sia possibile un giorno impostare un programma politico che abbia il coraggio di dire la verità ai cittadini. E non solo vincere le elezioni, ma farsi applaudire quando si annuncia che si passerà dalle parole ai fatti.
“Vabbè ma Milei è matto”, qualcuno mi dice spesso. Confesso che, tra tutte, mi sembra l’obiezione più assurda. Premesso che da noi non abbiamo (ancora) personaggi che vivono con cani clonati, hanno capigliature così assurde e comunicano telepaticamente col defunto mastino chiamato Conan, non penso che però sia un argomento che in Italia possiamo utilizzare con cotal disinvoltura, diciamo.
“Imagistrati pensano di essere come il dottor Jekyll ed il signor Hyde: sui social posso dire tutto ed il suo contrario, invece quando scrivono le sentenze lo fanno in ossequio la legge ed in piena autonomia ed indipendenza”, sottolinea l’avvocato ed ex parlamentare Antonio Leone, già presidente supplente della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Il prerequisito del magistrato è essere terzo ed imparziale: difficile non pensare il contrario quando egli pubblica post contro il governo e non facendo mistero della propria militanza politica. Purtroppo ad oggi nessun magistrato è stato mai sanzionato per i propri commenti sui social con la giustificazione che non sarebbe possibile limitare la sua libertà d’espressione. Concetto che ha prontamente ribadito da tutti coloro che vengono colti in castagna.
Favorevole sempre e comunque alla libertà di pensiero delle toghe è ovviamente l’Associazione nazionale magistrati, prontissima a giustificare qualsiasi comportamento dei propri iscritti. L’ultimo caso in ordine di tempo ha riguardato la giudice catanese Iolanda Apostolico che prima metteva i like ad alcuni post dove si invitava il ministro dell’Interno Matteo Salvini ad andare a far in c... per la sua politica sull’immigrazione clandestina e poi giudicava, in un cortocircuito incredibile, i provvedimenti dello stesso Ministero.
Nel 2016 durante la campagna per il referendum costituzionale proposto da Matteo Renzi rimase celebre il presidente del Tribunale di Bologna Francesco Caruso che arrivò a paragonare coloro che volevano votare a favore agli italiani che nel 1943 avevano aderito alla Repubblica di Salò, seguendo quindi il Duce e non i partigiani.
E sempre su questo tema, come dimenticare Piergiorgio Morosini, ex componente del Csm ed ora presidente del Tribunale di Palermo, che in una quanto mai discussa intervista al Foglio si lanciò in pesanti giudizi di valore contro Renzi e contro lo stesso Csm, al punto che si rese necessario l’intervento del Quirinale? Ma uno dei casi più surreali riguardò il pm di Trani Marco Ruggiero che si presentò in aula con la cravatta tricolore dopo aver esternato il proprio disappunto per essere stato ‘lasciato solo dallo Stato’ nel processo sulle agenzie di rating, finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Tornano allora alla mente le frasi, inascoltate, del primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio sulla necessità del dovere di riservatezza, discrezione, sobrietà da parte dei magistrati. A marzo del 2021, il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, con una delibera, ha definito le linee guida sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati. Il documento affronta il tema delle amicizie e delle connessioni create o accettate on line dai giudici amministrativi, raccomandando che i collegamenti siano gestiti con estrema diligenza e precauzione, limitando le connessioni virtuali per i soggetti coinvolti nel ruolo istituzionale o che possano intaccare l’immagine di imparzialità. Ogni magistrato amministrativo deve avere il diritto e il dovere di ricevere una formazione specifica relativa ai vantaggi e ai rischi dell’utilizzo dei social network e sono raccomandate iniziative di aggiornamento e formazione.
Sul fronte della giustizia ordinaria, invece, dopo l’ennesima esternazione di una toga sul proprio profilo Facebook, nel 2017 Pierantonio Zanettin, ora capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama e all’epoca componente laico del Csm, decise che fosse giunto il momento di aprire una pratica per individuare delle ‘linee guida’ volte a garantire che la comunicazione sui social da parte dei magistrati avvenisse nel rispetto dei principi deontologici e con forme e modalità tali da non arrecare pregiudizio alla credibilità della funzione.
Il Csm, però, dimostrando scarsa attenzione nei confronti di tutto ciò che mette in discussione il prestigio delle toghe agli occhi dei cittadini, aveva deciso dopo cinque anni, nel 2022, di archiviare direttamente la pratica perché l’argomento non sarebbe stato di sua competenza. “Nulla di nuovo. Ancora una volta, seguendo una tradizione ben consolidata in questi anni, il Csm ha preferito nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione”, era stato il laconico commento di Zanettin, ricordando che “il magistrato non è un cittadino come tutti gli altri: il suo ruolo gli impone di non lasciarsi andare a commenti e giudizi sconvenienti che possano comprometterne la terzietà ed imparzialità e che non possono essere giustificati con la libertà di pensiero”. Prima di Natale, e prima che esplodesse il caso Degni, è tornato alla carica Ernesto Carbone, laico del Csm in quota Italia viva, che in una nota indirizzata al Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, ha chiesto di “deliberare l’apertura di una pratica finalizzata alla discussione e alla definizione di criteri guida per la comunicazione ‘social’ dei magistrati”.
“Serve fare chiarezza sul tema dell’utilizzo che i magistrati possono fare dei social, al fine di garantire uniformità e parità di trattamento fra essi, relativamente al diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni”, ha sottolineato Carbone, e “serve fare chiarezza una volta per tutte sulla natura stessa dei social, se strumenti per l’espressione della vita privata o pubblica dei magistrati”.
Sarà la volta buona? Mah.