Temu e SheIn: il nuovo iper fast fashion Prezzi imbattibili, ma a che prezzo?
Se si decide di pagare un paio di pantaloni 14 euro si sceglie di alimentare un sistema socio economico tossico che si basa sullo sfruttamento dei fornitori manifatturieri con un impatto devastante su tutta la supply-chain e sull’ambiente
Icicloni Temu e SheIn si sono abbattuti anche sul nostro Paese e tantissimi sono stati tantissimi gli italiani che hanno scelto queste piattaforme super low cost per fare i propri regali di Natale. Ma cosa c’è realmente dietro ai nuovi fenomeni del commercio online provenienti dalla Cina con prezzi che, quasi sempre, rasentano l’assurdo? In rete e su altre testate giornalistiche potrete trovare già diversi articoli di denuncia molto dettagliati per come questi e-commerce trattano in maniera discutibile i dati e la privacy degli utenti, di come la qualità degli oggetti acquistati sia poi oggettivamente scadente o di come le carte di credito con cui pagate vengano spesso clonate con facilità. In queste pagine invece proveremo, partendo dal mio punto di vista di addetto ai lavori del sistema moda che vive da dentro questo momento complesso, a decifrare le difficoltà che questo settore sta affrontando anche a causa dell’arrivo di questi colossi cinesi online dell’iper fast fashion. La speranza non può che essere quella di provare ad anticipare le ripercussioni negative che questi cambiamenti inevitabilmente hanno già causato per la manifattura italiana e, perché no, ad intravedere quelle che potrebbero essere le soluzioni, politiche ed imprenditoriali, per sconfiggere quello che a tutti gli effetti si presenta come una seria minaccia. Lo faremo quando ormai mancano poche ore all’inizio della 105esima edizione di Pitti Uomo a Firenze, evento che porterà in Italia migliaia di persone da tutto il mondo per conoscere le tendenze del prossimo inverno. Recentemente mi è capitato di leggere un battibecco social tra il mitico Alessandro Squarzi e un commentatore che lo criticava apertamente per i suoi jeans in vendita nei negozi a quattrocento euro. Squarzi è un noto imprenditorie italiano, da decenni impegnato nel settore moda e, da qualche anno, diventato pure un influencer su Instagram per tutto ciò che ruota attorno alle passioni maschili: dal vestire agli orologi, dalle auto alle vacanze e così via. Da un po’ di tempo si è tolto lo sfizio, tra le tante, di lanciare anche un suo marchio di abbigliamento prodotto in Italia con tessuti italiani e giapponesi di alto livello. Lo conosco personalmente da qualche anno perché, oltre a condividere la passione per il vintage militare e per le cose belle in generale, anche io da un po’ di tempo sono entrato in questo settore con un mio marchio e ci troviamo spesso in giro per fiere. I commentatori, che in questo caso sono anche dei potenziali consumatori, hanno tutto il diritto tanto di dissentire sui prezzi e, allo stesso tempo, di ignorare le regole dell’attuale sistema moda. È anche per questo che, tutti noi, dovremmo tutti sentirci maggiormente coinvolti nello spiegare loro che se si decide di pagare un paio di pantaloni quattordici euro, si sceglie anche di alimentare un sistema socio economico tossico che si basa spesso sullo sfruttamento fornitori manifatturieri con un impatto devastante su tutta la supply-chain e sull’ambiente. Insomma, consapevoli o inconsapevoli, si è parte del problema. In maniera altrettanto chiara, occorre spiegare che se si vuole dare forza alle nostre aziende manifatturiere e se si vogliono sostenere anche quelle migliaia di negozi che ancora oggi rendono speciali i nostri centri storici e le nostre città, un bel paio di jeans fatti in Italia con tessuti italiani è più facile che costi quattrocento euro che non quattordici. I prodotti che propone Squarzi, come i miei e quelli di tante altre aziende italiane, sono l’esatto contrario di ciò si può trovare su Temu o su SheIn. Che, in questi anni, hanno convinto i consumatori che una maglietta la si deve pagare massimo cinque euro, un paio di jeans diciannove euro e un cappotto quarantanove. Pazienza se questi capi si indossano tre o quattro volte e poi si buttano via. L’arrivo sui mercati di questi enormi players orientali che propongo capi praticamente usa e getta a prezzi stracciati impone oggi una riflessione doverosa in tutta Europa sia su un piano economico che su un piano ambientale.
Ad essere minacciati dai colossi cinesi dell’ultra-fast-fashion sono anche le tantissime aziende dei distretti manifatturieri del Portogallo, della Spagna, della Francia, della Germania e dell’Est Europa, non solo le nostre. Insomma, Made in Europe è sinonimo di qualità e di legalità e la difesa di questi valori deve diventare una battaglia che riguarda tutti e che deve vedere tutti uniti dalla stessa parte. Qui non si tratta di essere liberali e liberisti a corrente alternata, perché liberali e liberisti lo si deve essere sempre a patto che questo non legittimi sistemi economici che ottengono vantaggi dallo sfruttamento lavorativo, da processi industriali altamente inquinanti o da lavorazioni dannose per rifinire i capi. Abbiamo realmente bisogno di tutti questi capi di abbigliamento a basso costo che durano il tempo di due passaggi in lavatrice? La risposta ovvia è no. Anche perché questi capi, una volta buttadei ti, finiscono in qualche discarica in Africa e questo è altro tema che rischia di diventare una delle prossime bombe ecologiche ad orologeria e che, per certi versi, è già fuori controllo. In Ghana ad esempio, si stima arrivino quasi 15 milioni di abiti usati a settimana. Un terzo di questi viene riciclato mentre il restante viene smaltito provocando spesso inquinamento e corruzione. L’Occidente vuole realmente rendersi complice di tutto questo? Riusciremo a superare culturalmente questa sorta di bulimia impulsiva verso l’acquisto di cose che non ci servono, andando verso scelte più oculate e consapevoli? L’Italia, con migliaia di aziende manifatturiere, ha tutte le carte in regola per guidare questa rivoluzione culturale che deve partire dalle aziende e che, coinvolgendo tutta la filiera, arriva fino al consumatore. È un tema del tutto politico che, ne sono certo, caratterizzerà fortemente la prossima legislatura a Bruxelles e anche i prossimi mesi di dibattito politico interno.