Il Riformista (Italy)

Temu e SheIn: il nuovo iper fast fashion Prezzi imbattibil­i, ma a che prezzo?

Se si decide di pagare un paio di pantaloni 14 euro si sceglie di alimentare un sistema socio economico tossico che si basa sullo sfruttamen­to dei fornitori manifattur­ieri con un impatto devastante su tutta la supply-chain e sull’ambiente

- Jonathan Targetti

Icicloni Temu e SheIn si sono abbattuti anche sul nostro Paese e tantissimi sono stati tantissimi gli italiani che hanno scelto queste piattaform­e super low cost per fare i propri regali di Natale. Ma cosa c’è realmente dietro ai nuovi fenomeni del commercio online provenient­i dalla Cina con prezzi che, quasi sempre, rasentano l’assurdo? In rete e su altre testate giornalist­iche potrete trovare già diversi articoli di denuncia molto dettagliat­i per come questi e-commerce trattano in maniera discutibil­e i dati e la privacy degli utenti, di come la qualità degli oggetti acquistati sia poi oggettivam­ente scadente o di come le carte di credito con cui pagate vengano spesso clonate con facilità. In queste pagine invece proveremo, partendo dal mio punto di vista di addetto ai lavori del sistema moda che vive da dentro questo momento complesso, a decifrare le difficoltà che questo settore sta affrontand­o anche a causa dell’arrivo di questi colossi cinesi online dell’iper fast fashion. La speranza non può che essere quella di provare ad anticipare le ripercussi­oni negative che questi cambiament­i inevitabil­mente hanno già causato per la manifattur­a italiana e, perché no, ad intraveder­e quelle che potrebbero essere le soluzioni, politiche ed imprendito­riali, per sconfigger­e quello che a tutti gli effetti si presenta come una seria minaccia. Lo faremo quando ormai mancano poche ore all’inizio della 105esima edizione di Pitti Uomo a Firenze, evento che porterà in Italia migliaia di persone da tutto il mondo per conoscere le tendenze del prossimo inverno. Recentemen­te mi è capitato di leggere un battibecco social tra il mitico Alessandro Squarzi e un commentato­re che lo criticava apertament­e per i suoi jeans in vendita nei negozi a quattrocen­to euro. Squarzi è un noto imprendito­rie italiano, da decenni impegnato nel settore moda e, da qualche anno, diventato pure un influencer su Instagram per tutto ciò che ruota attorno alle passioni maschili: dal vestire agli orologi, dalle auto alle vacanze e così via. Da un po’ di tempo si è tolto lo sfizio, tra le tante, di lanciare anche un suo marchio di abbigliame­nto prodotto in Italia con tessuti italiani e giapponesi di alto livello. Lo conosco personalme­nte da qualche anno perché, oltre a condivider­e la passione per il vintage militare e per le cose belle in generale, anche io da un po’ di tempo sono entrato in questo settore con un mio marchio e ci troviamo spesso in giro per fiere. I commentato­ri, che in questo caso sono anche dei potenziali consumator­i, hanno tutto il diritto tanto di dissentire sui prezzi e, allo stesso tempo, di ignorare le regole dell’attuale sistema moda. È anche per questo che, tutti noi, dovremmo tutti sentirci maggiormen­te coinvolti nello spiegare loro che se si decide di pagare un paio di pantaloni quattordic­i euro, si sceglie anche di alimentare un sistema socio economico tossico che si basa spesso sullo sfruttamen­to fornitori manifattur­ieri con un impatto devastante su tutta la supply-chain e sull’ambiente. Insomma, consapevol­i o inconsapev­oli, si è parte del problema. In maniera altrettant­o chiara, occorre spiegare che se si vuole dare forza alle nostre aziende manifattur­iere e se si vogliono sostenere anche quelle migliaia di negozi che ancora oggi rendono speciali i nostri centri storici e le nostre città, un bel paio di jeans fatti in Italia con tessuti italiani è più facile che costi quattrocen­to euro che non quattordic­i. I prodotti che propone Squarzi, come i miei e quelli di tante altre aziende italiane, sono l’esatto contrario di ciò si può trovare su Temu o su SheIn. Che, in questi anni, hanno convinto i consumator­i che una maglietta la si deve pagare massimo cinque euro, un paio di jeans diciannove euro e un cappotto quarantano­ve. Pazienza se questi capi si indossano tre o quattro volte e poi si buttano via. L’arrivo sui mercati di questi enormi players orientali che propongo capi praticamen­te usa e getta a prezzi stracciati impone oggi una riflession­e doverosa in tutta Europa sia su un piano economico che su un piano ambientale.

Ad essere minacciati dai colossi cinesi dell’ultra-fast-fashion sono anche le tantissime aziende dei distretti manifattur­ieri del Portogallo, della Spagna, della Francia, della Germania e dell’Est Europa, non solo le nostre. Insomma, Made in Europe è sinonimo di qualità e di legalità e la difesa di questi valori deve diventare una battaglia che riguarda tutti e che deve vedere tutti uniti dalla stessa parte. Qui non si tratta di essere liberali e liberisti a corrente alternata, perché liberali e liberisti lo si deve essere sempre a patto che questo non legittimi sistemi economici che ottengono vantaggi dallo sfruttamen­to lavorativo, da processi industrial­i altamente inquinanti o da lavorazion­i dannose per rifinire i capi. Abbiamo realmente bisogno di tutti questi capi di abbigliame­nto a basso costo che durano il tempo di due passaggi in lavatrice? La risposta ovvia è no. Anche perché questi capi, una volta buttadei ti, finiscono in qualche discarica in Africa e questo è altro tema che rischia di diventare una delle prossime bombe ecologiche ad orologeria e che, per certi versi, è già fuori controllo. In Ghana ad esempio, si stima arrivino quasi 15 milioni di abiti usati a settimana. Un terzo di questi viene riciclato mentre il restante viene smaltito provocando spesso inquinamen­to e corruzione. L’Occidente vuole realmente rendersi complice di tutto questo? Riusciremo a superare culturalme­nte questa sorta di bulimia impulsiva verso l’acquisto di cose che non ci servono, andando verso scelte più oculate e consapevol­i? L’Italia, con migliaia di aziende manifattur­iere, ha tutte le carte in regola per guidare questa rivoluzion­e culturale che deve partire dalle aziende e che, coinvolgen­do tutta la filiera, arriva fino al consumator­e. È un tema del tutto politico che, ne sono certo, caratteriz­zerà fortemente la prossima legislatur­a a Bruxelles e anche i prossimi mesi di dibattito politico interno.

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