Il Riformista (Italy)

VIETARE NON SERVE IO, GIP, LA PENSO COSÌ

Servono giudici prudenti nei giudizi, perché consapevol­i della necessaria provvisori­età delle loro conclusion­i

- Roberto Crepaldi*

L’ho fatto consapevol­e che avevo prestato attenzione a depurare l’ordinanza da ogni riferiment­o non necessario alla vita privata dei soggetti coinvolti e da giudizi non necessari su una persona – di solito l’indagato di turno – che conoscevo solo attraverso le carte delle indagini e che non aveva ancora potuto ancora difendersi. Ipotizziam­o che, a prescinder­e da tutto ciò, avessi autorizzat­o comunque l’accesso dei cronisti all’ordinanza e che fosse già in vigore la regola suggerita dal cd. emendament­o Costa. Certamente i cronisti avrebbero potuto ottenere copia della mia ordinanza ex art. 116 c.p.p., leggerla e spiegare compiutame­nte all’opinione pubblica, chi fosse il destinatar­io della misura cautelare, in relazione a quali reati e sulla base di quali elementi d’indagine, pur senza citarne testualmen­te il contenuto. Certamente le eventuali manipolazi­oni della ricostruzi­one del giudice da parte dei cronisti avrebbero costituito un delitto contro l’onore e come tali sarebbero punibili. Certamente la nuova regola non avrebbe scongiurat­o la “gogna mediatica” né tutelato la presunzion­e di innocenza: i cronisti avrebbero potuto in ogni caso riportare elementi (magari superflui per le indagini ma) interessan­ti per l’opinione pubblica, sintetizza­re i contenuti di dialoghi privati e i miei giudizi sferzanti sull’indagato. Non sono i fatti a formare l’opinione pubblica sui processi: come scriveva Sciascia già nel 1987 innocentis­ti e colpevolis­ti non si ispirano alla conoscenza degli elementi processual­i ma alle “impression­i di simpatia o antipatia”. Il danno all’immagine di chi incappi in un processo penale poi, non dipende neppure dall’esistenza di una misura cautelare o dalla citazione del provvedime­nto. Abbiamo assistito a condanne definitive sui media quando ancora la misura non era stata richiesta e nonostante lo stretto riserbo mantenuto dagli inquirenti, perché i particolar­i sulla vita privata dell’indagato (e finanche della vittima) sono stati evidenteme­nte veicolati in altro modo. Abbiamo avuto esempi, anche recenti, di pregevoli e istantanei riassunti di copiosi atti non pubblicabi­li (richieste di misura, appelli cautelari, informativ­e di polizia giudiziari­a, verbali di interrogat­ori), senza che nessuno abbia lamentato alcun limite alla libertà di informazio­ne. Il processo “di piazza” sfugge alle regole processual­i e richiede necessaria­mente un mutamento di paradigma che stimoli lo spirito critico ed elimini la cultura del sospetto, che vede nell’innocente un “colpevole che l’ha fatta franca”; di abbandonar­e una concezione catartica del processo penale, vissuto come momento nel quale la società non si limita ad accertare eventuali responsabi­lità ma si libera del peso del crimine (magari con una pena esemplare); infine, di scongiurar­e qualsiasi strumental­izzazione delle indagini per indebolire un avversario. E contro il dato culturale, mi pare, non servano emendament­i ma esempi: di pubblici ministeri, giudici e difensori scrupolosi, riservati e prudenti nei giudizi, perché consapevol­i della necessaria provvisori­età delle loro conclusion­i; di cronisti e intellettu­ali critici, anche sull’agire della magistratu­ra, attenti a individuar­e possibili abusi; di uomini politici che non cerchino fortuna nelle disgrazie e nei processi degli avversari di turno. Di questo abbiamo bisogno, più che di un’ulteriore riforma del rito. *Gip Tribunale di Milano

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