Padre Paolo Benanti tra algoritmi e algoretica
L’abito talare di Padre Benanti deve essere davvero letto come una ricchezza e non come una minaccia confessionale, come pure alcuni sprovveduti vanno paventando, sollevando risibili polemiche
Padre Paolo Benanti, frate francescano e docente di Teologia morale e Bioetica alla Pontificia Università Gregoriana, succede a Giuliano Amato alla guida del comitato su algoritmi ed editoria, istituito presso il Dipartimento per l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Una nomina importante, perché Padre Benanti è uno dei massimi esperti italiani, e non solo, di etica algoritmica e dell’impatto sociale delle nuove tecnologie sulla evoluzione, o sulla involuzione, dell’essere umano e del suo stare in società. Oltre a essere autorità riconosciuta anche a livello internazionale, tanto da esser stato scelto dall’ONU, unico italiano, nel proprio organismo di ricerca sulle intelligenze artificiali, Benanti è padre nobile dell’algoretica, quella particolare ramificazione dell’etica che si confronta con l’alta tecnologia e con le sue caratteristiche profondamente disruptive, sulle quali anche di recente la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è detta preoccupata.
In un suo volume del 2018, “Oracoli - tra algoretica e algocrazia” (Luca Sossella), è stato il primo in Italia, come ricorda anche l’Accademia della Crusca che si è confrontata con il riconoscimento linguistico del neologismo ‘algoretica’, a usare il termine in opposizione alla ‘algocrazia’, intesa questa come formula di dominio e prevalenza dell’algoritmo sull’umano.
Ecco, questa è la connotazione più rilevante della inesausta opera accademica e divulgativa di Padre Benanti, la rivendicazione della centralità dell’essere umano all’interno delle dinamiche di espansione delle logiche tecniche.
Benanti ha lungamente investigato il rischio di una autentica condizione post-umana, di una macchinizzazione dell’essere umano e della società che questi popola, proponendo come antidoto funzionale, assiologico ed epistemologico un ‘umanesimo digitale’; irrinunciabile strumento che topograficamente colloca l’essere umano, contro forze entropiche fintamente faustiane e prometeiche, al centro di un universo di senso e di significato, e che è assai caro anche alla Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, presieduta da Luciano Violante. Benanti rappresenta una eccellenza italiana nel campo, una figura di cui andare fieri. Come il filosofo Luciano Floridi, docente a Oxford e autore di magistrali riflessioni sull’etica e le intelligenze artificiali, o giuristi, come Oreste Pollicino e Marco Bassini, agglutinati attorno la rivista Medialaws, della Bocconi, da loro fondata e diretta. Senza dubbio alcuno, la nomina dell’ecclesiastico al vertice del comitato giunge anche in un momento assai delicato sul versante del rapporto tra intelligenza artificiale generativa ed editoria: di poche settimane fa, la notizia che il New York Times ha dichiarato guerra legale a Microsoft e a OpenAI, convenendo entrambe davanti un tribunale di New York per presunta violazione del copyright.
Benanti al linguaggio, come strumento tecnico, ha proprio di recente dedicato uno studio, “La grande invenzione. Il linguaggio come tecnologia, dalle pitture rupestri al GPT-3” (San Paolo), del 2021, seguito dall’ancor più recente “Human in the loop. Decisioni umane e intelligenze artificiali” (Mondadori); non c’è dubbio alcuno che, nonostante la apparente limitazione del perimetro di azione del comitato, chiamato a investigare la connessione e i problemi emergenti dal rapporto non del tutto pacifico tra intelligenza artificiale e editoria, sia proprio nella e sulla parola che si combatte la metaforica lotta per la definizione della società tutta.
Un tema già emerso con l’apparizione all’orizzonte dei motori di ricerca, autentiche biblioteche di Babele capaci, coi loro algoritmi, di ridefinire il linguaggio, la percezione che abbiamo del potere della parola e di modulare gerarchie istituzionali del sapere seguendo logiche spesso non umane.
Un tema che oggi, al cospetto delle intelligenze artificiali, assume connotazioni nuove e ancora se possibile più dirompenti. Il Logos, origine del mondo, delle sue regole, del vivere comune degli esseri umani, è destrutturato e rimodulato da sistemi algoritmici che si nutrono di testi scritti da altri, assemblandoli in patchwork venduti poi a platee spesso non culturalmente attrezzate per metabolizzarne la definizione e il peso.
In questo senso, l’abito talare di Padre Benanti deve essere davvero letto come una ricchezza e non come una minaccia confessionale, come pure alcuni sprovveduti vanno paventando, sollevando risibili polemiche.
Vien da ricordare a costoro che in una delle fasi di nascita della globalizzazione, quando le scoperte tecniche come la bussola e la inventiva umana schiusero agli occhi la vastità azzurra delle rotte oceaniche e della occupazione di spazi in apparenza vuoti di sovranità ma popolati da indigeni, furono proprio teologi come il domenicano Francisco de Vitoria, il gesuita Francisco Suarez o Ugo Grozio a gettare con le loro riflessioni sul diritto naturale lo spirito fondante del diritto internazionale e a celebrare il valore dell’essere umano. Non casualmente l’opera di de Vitoria, massimamente studiata da Carl Schmitt tra le pagine de ‘Il Nomos della terra’, riaffiora alla luce proprio in questi anni digitali, ripresa e ricontestualizzata da studiosi della società algoritmica, come il Johannes Thumfart del celebre saggio accademico “Francisco de Vitoria and the Nomos of the Code: The Digital Common and Natural Law, Digital Communication as Human Right”.
D’altronde per confrontarsi con il titanismo della tecnica, con la baluginante fiaccola di un moto che sembra promettere rivoluzioni antropologiche, per coordinare i lavori di un comitato composto da tecnici dell’editoria, giuristi, associazioni di settore, serviva qualcuno che per costituzione epistemologica oltre alla preparazione e allo studio avesse anche quella modestia d’animo essenziale per non cadere preda delle sirene della distopia.
Come ammoniva San Giovanni della Croce infatti “l’anima che vuole salire sul monte della perfezione, deve rinunciare a tutte le cose”.