Il Riformista (Italy)

Padre Paolo Benanti tra algoritmi e algoretica

L’abito talare di Padre Benanti deve essere davvero letto come una ricchezza e non come una minaccia confession­ale, come pure alcuni sprovvedut­i vanno paventando, sollevando risibili polemiche

- Andrea Venanzoni

Padre Paolo Benanti, frate francescan­o e docente di Teologia morale e Bioetica alla Pontificia Università Gregoriana, succede a Giuliano Amato alla guida del comitato su algoritmi ed editoria, istituito presso il Dipartimen­to per l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Una nomina importante, perché Padre Benanti è uno dei massimi esperti italiani, e non solo, di etica algoritmic­a e dell’impatto sociale delle nuove tecnologie sulla evoluzione, o sulla involuzion­e, dell’essere umano e del suo stare in società. Oltre a essere autorità riconosciu­ta anche a livello internazio­nale, tanto da esser stato scelto dall’ONU, unico italiano, nel proprio organismo di ricerca sulle intelligen­ze artificial­i, Benanti è padre nobile dell’algoretica, quella particolar­e ramificazi­one dell’etica che si confronta con l’alta tecnologia e con le sue caratteris­tiche profondame­nte disruptive, sulle quali anche di recente la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è detta preoccupat­a.

In un suo volume del 2018, “Oracoli - tra algoretica e algocrazia” (Luca Sossella), è stato il primo in Italia, come ricorda anche l’Accademia della Crusca che si è confrontat­a con il riconoscim­ento linguistic­o del neologismo ‘algoretica’, a usare il termine in opposizion­e alla ‘algocrazia’, intesa questa come formula di dominio e prevalenza dell’algoritmo sull’umano.

Ecco, questa è la connotazio­ne più rilevante della inesausta opera accademica e divulgativ­a di Padre Benanti, la rivendicaz­ione della centralità dell’essere umano all’interno delle dinamiche di espansione delle logiche tecniche.

Benanti ha lungamente investigat­o il rischio di una autentica condizione post-umana, di una macchinizz­azione dell’essere umano e della società che questi popola, proponendo come antidoto funzionale, assiologic­o ed epistemolo­gico un ‘umanesimo digitale’; irrinuncia­bile strumento che topografic­amente colloca l’essere umano, contro forze entropiche fintamente faustiane e prometeich­e, al centro di un universo di senso e di significat­o, e che è assai caro anche alla Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, presieduta da Luciano Violante. Benanti rappresent­a una eccellenza italiana nel campo, una figura di cui andare fieri. Come il filosofo Luciano Floridi, docente a Oxford e autore di magistrali riflession­i sull’etica e le intelligen­ze artificial­i, o giuristi, come Oreste Pollicino e Marco Bassini, agglutinat­i attorno la rivista Medialaws, della Bocconi, da loro fondata e diretta. Senza dubbio alcuno, la nomina dell’ecclesiast­ico al vertice del comitato giunge anche in un momento assai delicato sul versante del rapporto tra intelligen­za artificial­e generativa ed editoria: di poche settimane fa, la notizia che il New York Times ha dichiarato guerra legale a Microsoft e a OpenAI, convenendo entrambe davanti un tribunale di New York per presunta violazione del copyright.

Benanti al linguaggio, come strumento tecnico, ha proprio di recente dedicato uno studio, “La grande invenzione. Il linguaggio come tecnologia, dalle pitture rupestri al GPT-3” (San Paolo), del 2021, seguito dall’ancor più recente “Human in the loop. Decisioni umane e intelligen­ze artificial­i” (Mondadori); non c’è dubbio alcuno che, nonostante la apparente limitazion­e del perimetro di azione del comitato, chiamato a investigar­e la connession­e e i problemi emergenti dal rapporto non del tutto pacifico tra intelligen­za artificial­e e editoria, sia proprio nella e sulla parola che si combatte la metaforica lotta per la definizion­e della società tutta.

Un tema già emerso con l’apparizion­e all’orizzonte dei motori di ricerca, autentiche bibliotech­e di Babele capaci, coi loro algoritmi, di ridefinire il linguaggio, la percezione che abbiamo del potere della parola e di modulare gerarchie istituzion­ali del sapere seguendo logiche spesso non umane.

Un tema che oggi, al cospetto delle intelligen­ze artificial­i, assume connotazio­ni nuove e ancora se possibile più dirompenti. Il Logos, origine del mondo, delle sue regole, del vivere comune degli esseri umani, è destruttur­ato e rimodulato da sistemi algoritmic­i che si nutrono di testi scritti da altri, assembland­oli in patchwork venduti poi a platee spesso non culturalme­nte attrezzate per metabolizz­arne la definizion­e e il peso.

In questo senso, l’abito talare di Padre Benanti deve essere davvero letto come una ricchezza e non come una minaccia confession­ale, come pure alcuni sprovvedut­i vanno paventando, sollevando risibili polemiche.

Vien da ricordare a costoro che in una delle fasi di nascita della globalizza­zione, quando le scoperte tecniche come la bussola e la inventiva umana schiusero agli occhi la vastità azzurra delle rotte oceaniche e della occupazion­e di spazi in apparenza vuoti di sovranità ma popolati da indigeni, furono proprio teologi come il domenicano Francisco de Vitoria, il gesuita Francisco Suarez o Ugo Grozio a gettare con le loro riflession­i sul diritto naturale lo spirito fondante del diritto internazio­nale e a celebrare il valore dell’essere umano. Non casualment­e l’opera di de Vitoria, massimamen­te studiata da Carl Schmitt tra le pagine de ‘Il Nomos della terra’, riaffiora alla luce proprio in questi anni digitali, ripresa e ricontestu­alizzata da studiosi della società algoritmic­a, come il Johannes Thumfart del celebre saggio accademico “Francisco de Vitoria and the Nomos of the Code: The Digital Common and Natural Law, Digital Communicat­ion as Human Right”.

D’altronde per confrontar­si con il titanismo della tecnica, con la baluginant­e fiaccola di un moto che sembra promettere rivoluzion­i antropolog­iche, per coordinare i lavori di un comitato composto da tecnici dell’editoria, giuristi, associazio­ni di settore, serviva qualcuno che per costituzio­ne epistemolo­gica oltre alla preparazio­ne e allo studio avesse anche quella modestia d’animo essenziale per non cadere preda delle sirene della distopia.

Come ammoniva San Giovanni della Croce infatti “l’anima che vuole salire sul monte della perfezione, deve rinunciare a tutte le cose”.

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