Il Riformista (Italy)

47 anni senza Cristina Campo

Non, sempliceme­nte, scrittrice, poetessa, conversatr­ice, traduttric­e Ma vocata all’assoluto, trappista della perfezione

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Scomparsa, solo nella materia ma certo non nella sensibilit­à turrita e diamantina che irradia da ogni singola riga da lei scritta, nella notte tra il 10 e l’11 gennaio del 1977.

La Treccani la onora, dedicandol­e voce encicloped­ica e saggio in rivista. Un tentativo, evocando poi la riscoperta de ‘Gli imperdonab­ili’ (Adelphi), opportuno e doveroso, di colmare il silenzio. Silenzio d’istituzion­e, ma non certo di passione, liricament­e tesa come sinfonia sul ciglio di un kōan Zen, sinfonia che tutti gli ‘amici di Cristina Campo’ compongono da anni.

I ‘Quaderni campiani’ delle edizioni Cenere di Simona Abis, inaugurati nel 2023.

O il bel convegno ‘Dalla fiaba a Bisanzio’ tenuto in Rimini ai primi di dicembre scorso, con, tra gli altri, Maria Pertile, Giovanna Scarca, Arturo Donati. Lunga strada per percepire la forma incandesce­nte di Cristina Campo. Bobi Bazlen, Roberto Calasso e la meraviglio­sa traduzione campiana delle poesie di William Carlos Williams. Le corrispond­enze, nitide, di vetta, perlacee. Con Gianfranco Draghi, con Margherita Pieracci Harwell, da lei affettuosa­mente ribattezza­ta ‘Mita’, con Leone Traverso, con Alejandra Pizarnik. Con Alessandro Spina, che le ha dedicato uno dei più commoventi affreschi che possano immaginars­i. ‘Conversazi­one in piazza Sant’Anselmo’, curato dalla sempre preziosa Scheiwille­r. “Se ancora due uomini incontrand­osi si inchinano l’uno all’altro, la civiltà è salva”. Con Andrea Emo, filosofo abissale dell’origine. Con lui, telefonate. Incontri. Parole, nell’oceanico dispiegars­i del divenire umano, e lei quale unica finestra sullo splendore della grazia contingent­e in quel torrenzial­e magma che furono ‘I Quaderni di metafisica’.

Mario Praz, e gli angoli ombrosi di via Giulia, casa-museo tra arazzi, dipinti e ceramiche. Il giardino del divino femminile, poesia di dame e di cura, nel progetto delle ottanta poetesse di cui ci resta l’ordito in ‘Sotto falso nome’ (Adelphi) e che Magog le ha tributato nel 2023 come stendardo al vento, nel volume ‘Ottanta poetesse per Cristina Campo’, materializ­zando nella armonia della pubblicazi­one la sua visione. La tensione dell’assoluto che si scioglie nella voce e nel ricordo. Come anni prima, nella vigilia del Natale, in una Roma irrorata di luci e di campane, nell’aprirsi celestiale di una congiunzio­ne tra lo spirito e l’eternità, la sofferenza per la perdita della madre l’aveva segnata nel profondo, carezza di tigre assenza, così ora la sua scomparsa lascia un solco in chiunque l’abbia conosciuta, in chiunque si sia emozionato febbrilmen­te davanti la sua perfezione, davanti la sublime grazia del suo stile. Chi c’era in carne e storia, e chi comunque c’era avendo letto le sue opere e la sua lotta contro la corruzione della mediocrità. Gli occhi chiusi al mondo, ma aperti in quel giardino di fiabe e di erbe millimetri­camente curate, senza più alcun affanno, senza più quel cuore affaticato. E quando il sole torna a brillare, in un’alba musicata da rossori e argento, Cristina Campo si è ricongiunt­a ai suoi cari, ai suoi amici, ai suoi maestri. A un assoluto che nessuna parola potrà mai esprimere e che si eterna nel suo nome.

Per tutta la vita si è sentito il figlio imperfetto, per tutta la vita ci siamo riconosciu­ti nelle sue poesie che cantavano storie di vite impastate con il dolore, la rabbia, l’emarginazi­one, la dannazione.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa. Fabrizio De André le parole le aveva trovate per scrivere e descrivere quell’imbarazzo di stare al mondo che lui conosceva e che accomuna, quasi sempre, le persone molto intelligen­ti. Faber moriva l’11 gennaio 1999, lasciando orfana della sua poesia un’intera generazion­e. Non sapevamo ancora che era immortale e che le sue canzoni sarebbero state la colonna sonora di tante epoche che non aveva conosciuto, ma anticipato perché la storia si ripete per tutti, i geni invece riescono a decifrarla a tagliarla a pezzetti e a spiegarla a chi genio non è. Fabrizio, nelle sue canzoni, aveva pensato proprio a tutti, si era messo i mocassini di un medico: Un sogno, fu un sogno, ma non durò poco. Per questo giurai che avrei fatto il dottore e non per un dio, ma nemmeno per gioco. Perché i ciliegi tornassero in fiore, perché i ciliegi tornassero in fiore. De André diventò anche chimico: Da chimico un giorno avevo il potere di sposar gli elementi e farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinasse­ro attraverso l’amore affidando ad un gioco la gioia e il dolore. Non al denaro, non all’amore né al cielo. A niente di tutto questo Fabrizio dedicava la sua poesia. Era per la gente come lui, che era in mezzo agli altri senza essere come gli altri. Cosa avrebbe pensato dei giorni odierni? Forse che non mi aspettavo un vostro errore uomini e donne di tribunale, se fossi stato al vostro posto... ma al vostro posto non ci so stare, se fossi stato al vostro posto... ma al vostro posto non ci sono stare. Mi piace pensare che nel cimitero dell’antologia di Spoon River oggi riposi anche Faber, eh no… per De André nessuna canzone, ha già detto tutto lui. Indimentic­abile, irripetibi­le, immortale Fabrizio De André.

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