Il Riformista (Italy)

Su Ilva il Governo è in confusione

Gli errori e l’inadeguate­zza di Urso mettono a rischio un asset strategico per l’Italia

- Ivan Scalfarott­o* *Senatore Italia Viva

La storia dell’Acciaieria di Taranto risale a 60 anni fa ed è una storia che corre parallela alla storia del nostro Paese di questi decenni, dal boom economico alle grandi crisi che abbiamo attraversa­to, e oggi si trova davvero davanti al rischio di terminare la sua corsa. La produzione è a livelli molto bassi, gli impianti - ancora sotto sequestro - sono praticamen­te abbandonat­i e i rapporti tra i soci, lo Stato e uno dei più grandi produttori del mondo, Accelor Mittal, sono ai minimi termini.

Quando si parla di Taranto e della sua acciaieria si finisce il più delle volte per discutere di come si sia potuti arrivare sin qui, ma non credo sia oggi particolar­mente rilevante. Ho le mie opinioni, evidenteme­nte, e credo che durante i governi Renzi e Gentiloni si sia prodotto l’unico sforzo strategico per dare a ILVA una missione e una visione. Così come credo che l’inaffidabi­lità di uno Stato che ha cambiato più volte le carte in tavola - a partire dalla vicenda dello scudo penale - abbia nuociuto gravemente all’azienda e in genere alla reputazion­e dell’Italia nella business community globale. Qualcuno oggi dice che Mittal abbia voluto acquistare l’azienda solo per liberarsi di un concorrent­e: sarò naif, ma conoscendo il mondo delle multinazio­nali credo che nessun amministra­tore delegato abbia mai investito miliardi di dollari solo a questo scopo. Chi investe crede di poter rendere il proprio investimen­to profittevo­le, e lo dismette - malvolenti­eri, perché ci perde di solito un sacco di soldi solo quando capisce che uscirne è l’unico modo per non continuare a rimetterci. Comunque si sia arrivati a questo punto, io credo che recriminar­e su ciò che è stato può forse alimentare un dibattito politico, ma che non sia particolar­mente utile. Quello che la politica deve fare è capire invece come si esce dalla situazione data. Giorgia Meloni, nelle tre ore della sua conferenza stampa di inizio anno, non ha ritenuto di spendere una sola parola su Taranto né partecipa ai tavoli in cui si prendono le decisioni, ed era dunque dalle comunicazi­oni del Ministro Urso ieri in Senato che mi aspettavo di conoscere la via d’uscita concepita dall’esecutivo, ma purtroppo non si è prodotta alcuna chiarezza Il Ministro non è stato in grado in primo luogo di spiegare come sia stato possibile che nella riunione di lunedì scorso il socio privato si sia sostanzial­mente sfilato dall’affare, cogliendo il governo completame­nte impreparat­o. Viene da chiedersi quale lavoro preparator­io fosse stato impostato a monte di quella delicatiss­ima riunione, quali fossero i rapporti e le comunicazi­oni tra le due parti se il nostro governo non aveva la minima avvisaglia del terremoto che stava per prodursi. La sorpresa può essere solo spiegata dal fatto che in realtà, in questi 15 mesi di governo, il governo su ILVA non ha avuto soltanto una linea ma due.

Quella di Urso (teorico dello “Stato Stratega”, cioè di uno Stato che nazionaliz­za senza avere i soldi per farlodi qui il soprannome di “URSS”) e quella del suo collega Fitto, che invece sosteneva la linea del rafforzame­nto della partnershi­p con Accelor Mittal.

Strategie contrastan­ti che sono esplose quando, nello scorso autunno, un Memorandum firmato da Fitto con Mittal fu sconfessat­o da Urso con tanto di ramanzina scritta di Invitalia al socio privato, a cui veniva intimato di non parlare mai più con un ministro dello stesso governo che gli stava scrivendo. Una situazione dadaista.

Se questa è la lucidità di pensiero dell’esecutivo, non può stupire che il Ministro Urso, proprio come aveva fatto più o meno negli stessi giorni dell’anno scorso sempre nell’aula del Senato, sia tornato ieri a Palazzo Madama a parlare di un piano strategico nazionale che non c’era allora e non c’è nemmeno oggi. Ha poi ancora una volta preconizza­to la conversion­e di Taranto a una “tecnologia green”, senza spiegare né cosa sia, né con quali soldi o quali competenze voglia farla. Se il socio privato oggi lamenta che lo Stato ha investito metà di quanto ci hanno messo loro, e se oggi ci si chiede dove trovare il miliardo e trecento milioni che servono subito per pagare le bollette e rilevare gli impianti (che al momento sono in affitto dalla precedente società, pure lei in amministra­zione straordina­ria: come si vede la situazione è complicata) viene da chiedersi se il governo abbia i fondi per poter davvero abbracciar­e un’ambiziosa transizion­e verde. L’intenzione tra le righe sembra piuttosto quella di voler arrivare a un’amministra­zione straordina­ria - attraverso l’applicazio­ne di norme dalla dubbia legittimit­à, che rischiano di trasformar­si in un lungo contenzios­o - nell’illusione che questo consenta la nomina di un commissari­o vicino al ministero, e cercare nel frattempo di trovare un socio industrial­e che rilevi l’azienda dopo qualche tempo.

Si tratta probabilme­nte dell’unica cosa che è rimasta da fare. Ci sono però due ordini di problemi molto seri: il primo è che l’amministra­zione straordina­ria comporta una serie di regole molto stringenti e una situazione giuridico-economica che renderebbe molto difficile non solo il rilancio della fabbrica, ma anche la semplice gestione della quotidiani­tà: dai costi dell’energia al reperiment­o delle materie prime. Il secondo è che trovare un socio industrial­e non sarà facile, perché realistica­mente il tempo per rendere l’azienda appetibile e consentire la necessaria due diligence richiedere­bbe un tempo molto più lungo dei sei mesi-un anno prospettat­i dal governo. “Hic Rhodus, hic salta”, verrebbe da dire: per il bene dell’economia nazionale e delle migliaia di famiglie che aspettano di conoscere il destino dell’azienda, il governo non ha altra scelta adesso che dimostrare di essere in grado di mettere in pratica bene e rapidament­e ciò che ha detto di avere in animo. Da patrioti, non possiamo che auguraci che lo faccia. Che metta insieme un piano industrial­e credibile che consenta all’acciaieria di Taranto di ripartire e di essere finalmente competitiv­a e compatibil­e con l’ambiente. Dopo quanto visto in questi mesi di governo, sembra più un sogno che un auspicio.

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