Un viaggio finisce dove inizia un’altra vita
Una frase senza appello, la frase che tutti i genitori temono più della morte e che nessuno vorrebbe dover ascoltare mai. È la frase con cui si apre il romanzo di Tim Parks “Destino” (Adelphi), poche parole spietate che annunciano a Chris, giornalista britannico trapiantato in Italia da anni, il suicidio del figlio schizofrenico. L’unità di tempo in cui si resta impigliati da adesso in poi è breve, ma di una densità di gran lunga superiore alla durata. Seguono alla dichiarazione di morte solo settantadue ore, la mente si frantuma in un flusso straripante di pensieri a volte oscuri e a volte cinici, qualsiasi mezzo pur di sopravvivere, e dunque allontanare un dolore troppo insopportabile per essere accolto, e dunque tornare a ripetersi che in qualche modo la vita continua. Dopo anni trascorsi a riflettere sulla prevedibilità del comportamento umano, il tema su cui Chris sta scrivendo, l’uomo, il padre, il marito di una donna sconvolta quanto lui, è al cospetto dell’insensatezza dell’esistenza e della sua imprevedibilità, imprigionato in una risacca di ricordi che hanno la forma tagliente di piccole schegge. Il suo matrimonio con Mara è destinato a finire? Se lo chiede spesso, Chris, ma senza trovare una risposta, e il lettore con lui dato che è obbligato in questo groviglio di giudizi febbrili e in questo caleidoscopio di ossessioni e di paure. Nel frattempo, il lavoro non si ferma e il protagonista conferma il suo appuntamento con Andreotti per un’intervista. La cultura italiana investe le considerazioni del giornalista e del padre in lutto, dell’uomo che ha sposato una donna per lui straniera e che dal giorno del matrimonio è in cerca di ponti per avvicinarsi a lei, ancora rinchiusa nel suo mistero. Ecco la politica italiana e la letteratura. Nei tanti giri mentali di Chris, a comparire sono i simboli della nostra cultura come ad esempio “I promessi sposi”. “Non ho esercitato nessuna influenza su mio figlio. Figuriamoci poi se l’ho manipolato. Eppure quando ero arrivato alla pagina in cui Manzoni racconta di come la Monaca di Monza finisce murata viva in una cella per anni, sapevo che pensavo a Marco. Anche Marco è murato in una cella, mi ero detto.” Marco, il figlio schizofrenico, è circondato dalle sbarre di una malattia che non concede ossigeno, affetto da crisi persecutorie e alienato dalla realtà. Quelle pagine di Manzoni, “quella vicenda tremenda e tremendamente italiana”, hanno suscitato in Chris un senso di orrore che raramente ha provato, l’immagine di una donna giovane e bella e sensuale come Gertrude intrappolata nella sua natura più intima, l’immagine di una figlia manipolata da suo padre. Quali le colpe, e di chi? Difficile darsi una risposta. Tutto appare alterato, deforme, tranne il teatro fisico di questo ininterrotto flusso mentale: Roma. Non c’è penombra sotto i cipressi del cimitero, non c’è rifugio dalla vampa del sole, ma ci sono le tombe e i monumenti, i resti degli imperatori e dei papi, ecco la città in cui la morte si glorifica nel prolificare lungo i secoli di angeli e di madonne. Tim Parks resta fedele alle premesse inziali e fino all’ultima pagina incastra il lettore nella trappola di uno sguardo mai oggettivo, quello di Chris, e dentro un unico punto di vista scomposto in una sinfonia di giudizi. Andreotti è stato spazzato via dal potere, il suo partito dopo anni di incontrastate vittorie è stato spazzato via d’improvviso. Ci vogliono anni per costruire e per credere in qualcosa convincendosi che sia solida e inattaccabile, ma ci vuole un attimo perché tutto finisca. La vita di un figlio, o il matrimonio. “Ogni rapporto è un universo, ho pensato, e ogni universo che si rispetti ha il suo paradiso e il suo inferno”. Ora che al protagonista non resta niente, l’unico confronto possibile è quello con il suo destino. Eppure attimo dopo attimo tutto sembra schiarirsi, la nebbia si dirada e a essere solide e inamovibili non sono più le illusioni ma la cocente verità: il lutto, la perdita, anche la forza adattiva dell’uomo davanti al dolore. Il viaggio si conclude lì dove comincia un’altra vita.