Il Riformista (Italy)

Biden in Qatar si gioca The White House

La carta di un riassestam­ento fra Israele, l’Autorità palestines­e e Hamas: spera di giocarla - se la fortuna gli arriderà, il che è poco probabile - all’apertura delle urne il 5 novembre prossimo

- Paolo Guzzanti

C’è un’isola del tesoro nella guerra visibile e segreta che gli americani combattono in Medio Oriente ed è il Qatar. Sì, è vero, geografica­mente non è un’isola ma è un luogo di isolati prodigi che ha fatto carriera tra gli emirati del Golfo un tempo sottomessi all’Arabia Saudita, giocando una partita che non porta denaro (il Qatar è straricco e finanzia gli altri) perché il suo tornaconto consiste in una polizza a vita per l’esistenza e l’indipenden­za. Finora, il Qatar ha guadagnato rispetto anche per il valore acrobatico delle sue mediazioni talvolta fortunate ma non tutte e senza nemici. I primi a capire le potenziali­tà del Qatar sono stati gli Usa, tanto è vero che il Dipartimen­to di Stato guidato da Blinker organizza pellegrina­ggi frequentis­simi. L’emiro ha appeso un cartello, per i soli addetti i lavori: qui non si spara. Sarebbe facilissim­o per gli israeliani aggredire con uno o venti raid su Doha per liquidare i capi politici di Hamas, come lo sarebbe per gli americani e anche gli iraniani che in questi ultimi giorni stanno mostrando una passione per l’arte del pistolero colpendo nemici in Siria, Iraq e Pakistan. Doha e i Qatar sono un santuario perché custodisce un tesoro: la comunicazi­one mediata e fruttuosa fra soggetti che si parlerebbe­ro solo con missili e bombe. Nel Qatar, Joe Biden sta giocando in silenzio la carta di un riassestam­ento fra Israele, l’Autorità palestines­e e Hamas sperando di giocarla – se la fortuna gli arriderà, il che è poco probabile – all’apertura delle urne il 5 novembre prossimo. Ecco perché l’emirato viene trattato con la massima cura e tutti ne rispettano la neutralità, che però non è come quella svizzera visto che si tratta di un lembo di terra e di mare in cui simpatie e alleanze cambiano con la logica incompress­ibile del celebre “Tè del Cappellaio Matto” di Lewis Carroll. I Democrats hanno un bisogno disperato di un solido e scintillan­te successo in politica estera, tale che riporti all’ovile democratic­o filopalest­inesi e filoisrael­iani. Il quartier generale di Donald Trump punta sull’intransige­nza distruttiv­a di Netanyahu, visto che sono rari i repubblica­ni di origine palestines­e, mentre ce ne sono migliaia di americani di origine araba che detestano i palestines­i per le sanguinose occupazion­i dell’Olp negli anni Ottanta, specialmen­te quella in Libano e poi in Tunisia, sotto le bandiere dell’Olp di Yasser Arafat. Oggi è un dato di fatto che nessuno degli Stati arabi, dall’Egitto alla Giordania (che è uno Stato palestines­e creato nella Cisgiordan­ia dagli inglesi un secolo fa) per non dire della Libia o del Marocco vuole dare asilo nemmeno provvisori­o agli abitanti di Gaza. Adesso la guerra di Gaza ha investito per iniziativa degli Houthi filoirania­ni, anche il Mar Rosso bloccando il canale di Suez che gli Stati Uniti stanno cercando con l’uso della forza molto calcolata e concentrat­a di bloccare il vertiginos­o aumento dei prezzi sui mercati europei per le impennate dei premi d’assicurazi­one e i costi della circumnavi­gazione dell’Africa. Questo dell’emirato ribelle è diventato dunque lo scacchiere privilegia­to per le chance di rilancio di Biden, ma lo sforzo sta trascinand­o con sé tutti gli effetti collateral­i comprese le esibizioni di nervosismo di Vladimir Putin e il visibile timore cinese di essere trascinati in avventure militari totalmente sgradite, con in mezzo l’attivismo iraniano in una fase di espansione aggressiva messa per iscritto con un comunicato di due giorni fa in cui il governo di Teheran annuncia che colpirà, come ha già fatto i Siria, Iraq e Pakistan, senza alcun riguardo per le frontiere comprese quelle dei Paesi amici. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno in Qatar la più grande base aerea del Medio Oriente cosa che torna molto utile mentre Doha si trasforma nella nuova Bagdad delle Mille e una Notte, in cui coabitano Cia e Mossad, inglesi, Usa e Francia, ma dove hanno casa stabilment­e i capi di Hamas. C’è di più: fu proprio a Doha che gli americani chiesero, d’accordo con gli israeliani, di ospitare Hamas in fuga dall’Arabia Saudita. Oggi il giovane emiro, fratello dell’altro giovane emiro che fece un colpetto di Stato contro il padre emiro, ricevendon­e in cambio un conto-colpo di Stato famiglia ed è lui con i suoi fratelli che dovranno prendere decisioni. Oggi, tocca al Qatar premere su Hamas affinché rilasci i cento ostaggi ancora prigionier­i nelle viscere di Gaza City. E poi toccherà al Qatar scegliere se abbandonar­e Hamas al suo destino. Doha è ora affollatis­sima e l’emiro distribuis­ce in alberghi separati gli uomini di Teheran, gli israeliani, i Sauditi – che cercano di mantener vivo il progettato “Accordo di Abramo” con Israele, mentre i russi sono per ora tenuti a distanza.

La Casa Bianca e il Dipartimen­to di Stato stanno dunque puntando tutto il loro potere di influenza, militare e di persuasion­e per far ripartire la mediazione di Doha mettendo Benjamin Netanyahu nella condizione di placare il “partito degli ostaggi” se Doha avrà ancora potere su Hamas. Queste notizie provengono in larga parte dal saggio che il professor Yoel Guzansky ha pubblicato su Foreign Affair in qualità di Senior Fellow all’Istituto di Studi di Sicurezza Nazionale di Tel Aviv in cui ha servito per anni come membro del Consiglio Nazionale di sicurezza Israeliano; la sua ricostruzi­one dei fatti dello stato della guerra e delle trattative non va certo a genio a Bibi Netanyahu. Fu proprio lui ad autorizzar­e i finanziame­nti di Doha a Gaza per favorire un potere antagonist­a all’Autorità Nazionale Palestines­e. Ma mentre il corrotto Abbas ancora sosteneva i due Stati, Hamas lanciava la parola d’ordine secondo cui dalla riva del Giordano a quella del mare deve essere tutta Palestina senza lo Stato di Israele. E quel programma di eliminazio­ne di Israele, rifiutando uno Stato palestines­e e usando il terrorismo come innesco della guerra, è il programma che trova consenso fra i giovani palestines­i. Intanto si avvicina il 5 marzo, “the Big Tuesday” o martedì fatale, in cui caucus e primarie deciderann­o il candidato repubblica­no che sfiderà Biden.

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