IL PM IN SOCCORSO DELL’INDAGATO?
Nessuno avrebbe mai pensato che si possano ignorare o occultare prove favorevoli all’indagato
Senza di essa, nessuno avrebbe mai pensato che si possano ignorare o occultare prove favorevoli all’indagato. Non sempre proprio un reato, ma, almeno, un illecito disciplinare. Perfino negli U.S.A., culla della sporting theory, sin dal 1935 in Berger vs. US, per la Corte Suprema il Prosecutor non mira a tutti i costi alla condanna, ma concorre affinché giustizia sia fatta. E dagli anni ’60, con Brady vs. Maryland, incombe sull’accusa uno specifico dovere di disclosure in favore della difesa circa le prove a discarico.
Ancorché soltanto didascalica, da noi la norma si è, invece, prestata a sottolineare il dislivello di mezzi e poteri tra accusa e difesa, facendo conclamare alla giurisprudenza, fino all’avvento nel duemila delle indagini difensive, una presunta logica della “canalizzazione”, che imponeva alla difesa di veicolare nel fascicolo dell’indagine eventuali elementi ritenuti utili, nella speranza di vederli considerati.
Nel 1997, la Corte costituzionale aveva ritenuto manifestamente infondate le censure di incostituzionalità sollevate per l’assenza di sanzioni processuali ad hoc in caso di omesso accertamento su fatti e circostanze favorevoli all’indagato. Da potenziale a tutela della difesa, il precetto dell’art. 358 c.p.p. si è così trasformato in generica direttiva “funzionale ad un corretto e razionale esercizio dell’azione penale”.
In realtà, si tratta di disposizione assai farisaica. Come se in ogni indagine preliminare il P.M. raccolga o verifichi elementi a discarico e non sia intento, piuttosto, a sgombrare ogni ostacolo nei confronti della sua tesi, in attesa di essere elevata in forma di imputazione.
Ciò fornisce immeritate patenti di attendibilità agli esiti delle indagini.
Detto altrimenti: se il P.M. deve indagare e si presume indaghi anche in direzione opposta al senso di marcia dell’accusa, quando il suo fascicolo non contiene o non considera significativi elementi a discarico, simile vuoto suona, allora, a conferma dell’addebito e funge da “bollino blu” sulla sua tenuta.
Oltre al peso che simile lettura esercita su singole vicende giudiziarie, perplessità ulteriori suscitano le possibili ricadute culturali e di sistema.
Tale norma rappresenta la “foglia di fico” per una stantia narrazione su operato e ruolo del P.M. italiano. Nonostante la sua constatata inefficacia, contribuisce ad impedire che venga smascherata la retriva visione dell’organo dell’accusa quale parte “imparziale”, anche in forza dell’anomalo intreccio tra la posizione processuale rivestita e l’inquadramento istituzionale-ordinamentale.
Una sorta di nonsense, che si aggira perniciosamente nell’ambito di un processo che si voleva accusatorio.
E si finisce per fornire, così, pretesto per insistere ottusamente nella visione para-giurisdizionale del P.M. e presunto supporto culturale alla pretesa, viceversa tutta politica, di sbarrare la strada ad una seria ed effettiva separazione delle carriere.
*Professore ordinario di procedura penale
l’intenzione di rivolgersi ai PM milanesi per far arrivare “una valanga di merda” ad alcuni dirigenti apicali della compagnia».
La condotta omissiva dei magistrati, celata dietro un’interpretazione banalizzante del valore dell’elemento probatorio, viene ritenuta grave al punto da giustificare, dopo la sentenza del Tribunale, l’apertura di un procedimento penale a loro carico.
E così, la caduta del castello accusatorio è resa ancor più fragorosa dal rinvio a giudizio dei Pubblici Ministeri procedenti per omissione proprio per non aver voluto depositare talune prove favorevoli per le difese.
Sulle motivazioni che avrebbero animato i due magistrati attualmente imputati a Brescia ha cercato di far chiarezza un’altra toga, il Pubblico Ministero venuto a conoscenza – nell’ambito di diverso procedimento a lui assegnato – di circostanze potenzialmente determinanti circa la credibilità del super testimone Armanna. Nel riferirle ai colleghi, tuttavia, si era trovato davanti un muro: «l’atteggiamento era: noi questo processo non lo possiamo perdere, Eni non deve uscirne bene»; «ho avuto la sensazione (…) che questi anche se gli portavo la pistola fumante non volevano sentire». Queste le sue parole in occasione della deposizione del 3 ottobre 2023, resa quale testimone nel processo ai due magistrati. Secondo quanto riferito dal dott. Storari, dunque, sembrerebbero aver motivato la Procura di Milano.
«Un muro di indagini non portate a conoscenza»: omissioni e storture sulle quali si sono basati un’inchiesta e un processo a carico di quindici imputati,
«su calunnie, testi pagati e documenti falsi» (ancora le parole di Storari all’udienza citata).
I due Pubblici Ministeri milanesi hanno comunque impugnato la sentenza di assoluzione, portando avanti strenuamente la tesi accusatoria.
Tuttavia, la Procura Generale, in persona della dott.ssa Celestina Gravina, investita dell’impugnazione, vi ha invece ritenuti i motivi di appello della Procura di «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità» e assente «qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa», e ha così reso definitiva la sentenza che ha dichiarato l’innocenza degli imputati.
Secondo la Procuratrice Gravina in questa vicenda «Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto, e questa è una violazione delle regole di giudizio».
È la prigionia dell’ostinazione, della ricerca del capro espiatorio, del dare alla collettività una risposta immediata – non importa quale – all’esigenza di giustizia. Questo il rischio in cui può incappare un’Accusa che raccoglie elementi che vanno in una sola direzione.
Quale il rimedio? Secondo Storari «ognuno è innamorato delle proprie tesi ed è verissimo, esiste la visione tunnel, ed è verissimo, uno non riesce a uscirne, è molto difficile poi tornare indietro sulle proprie posizioni su cui si è speso. Su tutto questo concordo, fa parte del - diciamo così - atteggiamento umano». Ma «è per questo che siamo una parte, è per questo che serve il contraddittorio, per far vedere anche pezzi che noi senza malafede non vediamo».
al centro Claudio Descalzi AD ENI