Il Riformista (Italy)

IL PM IN SOCCORSO DELL’INDAGATO?

Nessuno avrebbe mai pensato che si possano ignorare o occultare prove favorevoli all’indagato

- Luca Marafioti* L. Z.

Senza di essa, nessuno avrebbe mai pensato che si possano ignorare o occultare prove favorevoli all’indagato. Non sempre proprio un reato, ma, almeno, un illecito disciplina­re. Perfino negli U.S.A., culla della sporting theory, sin dal 1935 in Berger vs. US, per la Corte Suprema il Prosecutor non mira a tutti i costi alla condanna, ma concorre affinché giustizia sia fatta. E dagli anni ’60, con Brady vs. Maryland, incombe sull’accusa uno specifico dovere di disclosure in favore della difesa circa le prove a discarico.

Ancorché soltanto didascalic­a, da noi la norma si è, invece, prestata a sottolinea­re il dislivello di mezzi e poteri tra accusa e difesa, facendo conclamare alla giurisprud­enza, fino all’avvento nel duemila delle indagini difensive, una presunta logica della “canalizzaz­ione”, che imponeva alla difesa di veicolare nel fascicolo dell’indagine eventuali elementi ritenuti utili, nella speranza di vederli considerat­i.

Nel 1997, la Corte costituzio­nale aveva ritenuto manifestam­ente infondate le censure di incostituz­ionalità sollevate per l’assenza di sanzioni processual­i ad hoc in caso di omesso accertamen­to su fatti e circostanz­e favorevoli all’indagato. Da potenziale a tutela della difesa, il precetto dell’art. 358 c.p.p. si è così trasformat­o in generica direttiva “funzionale ad un corretto e razionale esercizio dell’azione penale”.

In realtà, si tratta di disposizio­ne assai farisaica. Come se in ogni indagine preliminar­e il P.M. raccolga o verifichi elementi a discarico e non sia intento, piuttosto, a sgombrare ogni ostacolo nei confronti della sua tesi, in attesa di essere elevata in forma di imputazion­e.

Ciò fornisce immeritate patenti di attendibil­ità agli esiti delle indagini.

Detto altrimenti: se il P.M. deve indagare e si presume indaghi anche in direzione opposta al senso di marcia dell’accusa, quando il suo fascicolo non contiene o non considera significat­ivi elementi a discarico, simile vuoto suona, allora, a conferma dell’addebito e funge da “bollino blu” sulla sua tenuta.

Oltre al peso che simile lettura esercita su singole vicende giudiziari­e, perplessit­à ulteriori suscitano le possibili ricadute culturali e di sistema.

Tale norma rappresent­a la “foglia di fico” per una stantia narrazione su operato e ruolo del P.M. italiano. Nonostante la sua constatata inefficaci­a, contribuis­ce ad impedire che venga smascherat­a la retriva visione dell’organo dell’accusa quale parte “imparziale”, anche in forza dell’anomalo intreccio tra la posizione processual­e rivestita e l’inquadrame­nto istituzion­ale-ordinament­ale.

Una sorta di nonsense, che si aggira perniciosa­mente nell’ambito di un processo che si voleva accusatori­o.

E si finisce per fornire, così, pretesto per insistere ottusament­e nella visione para-giurisdizi­onale del P.M. e presunto supporto culturale alla pretesa, viceversa tutta politica, di sbarrare la strada ad una seria ed effettiva separazion­e delle carriere.

*Professore ordinario di procedura penale

l’intenzione di rivolgersi ai PM milanesi per far arrivare “una valanga di merda” ad alcuni dirigenti apicali della compagnia».

La condotta omissiva dei magistrati, celata dietro un’interpreta­zione banalizzan­te del valore dell’elemento probatorio, viene ritenuta grave al punto da giustifica­re, dopo la sentenza del Tribunale, l’apertura di un procedimen­to penale a loro carico.

E così, la caduta del castello accusatori­o è resa ancor più fragorosa dal rinvio a giudizio dei Pubblici Ministeri procedenti per omissione proprio per non aver voluto depositare talune prove favorevoli per le difese.

Sulle motivazion­i che avrebbero animato i due magistrati attualment­e imputati a Brescia ha cercato di far chiarezza un’altra toga, il Pubblico Ministero venuto a conoscenza – nell’ambito di diverso procedimen­to a lui assegnato – di circostanz­e potenzialm­ente determinan­ti circa la credibilit­à del super testimone Armanna. Nel riferirle ai colleghi, tuttavia, si era trovato davanti un muro: «l’atteggiame­nto era: noi questo processo non lo possiamo perdere, Eni non deve uscirne bene»; «ho avuto la sensazione (…) che questi anche se gli portavo la pistola fumante non volevano sentire». Queste le sue parole in occasione della deposizion­e del 3 ottobre 2023, resa quale testimone nel processo ai due magistrati. Secondo quanto riferito dal dott. Storari, dunque, sembrerebb­ero aver motivato la Procura di Milano.

«Un muro di indagini non portate a conoscenza»: omissioni e storture sulle quali si sono basati un’inchiesta e un processo a carico di quindici imputati,

«su calunnie, testi pagati e documenti falsi» (ancora le parole di Storari all’udienza citata).

I due Pubblici Ministeri milanesi hanno comunque impugnato la sentenza di assoluzion­e, portando avanti strenuamen­te la tesi accusatori­a.

Tuttavia, la Procura Generale, in persona della dott.ssa Celestina Gravina, investita dell’impugnazio­ne, vi ha invece ritenuti i motivi di appello della Procura di «incongrui, insufficie­nti e fuori dal binario di legalità» e assente «qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa», e ha così reso definitiva la sentenza che ha dichiarato l’innocenza degli imputati.

Secondo la Procuratri­ce Gravina in questa vicenda «Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto, e questa è una violazione delle regole di giudizio».

È la prigionia dell’ostinazion­e, della ricerca del capro espiatorio, del dare alla collettivi­tà una risposta immediata – non importa quale – all’esigenza di giustizia. Questo il rischio in cui può incappare un’Accusa che raccoglie elementi che vanno in una sola direzione.

Quale il rimedio? Secondo Storari «ognuno è innamorato delle proprie tesi ed è verissimo, esiste la visione tunnel, ed è verissimo, uno non riesce a uscirne, è molto difficile poi tornare indietro sulle proprie posizioni su cui si è speso. Su tutto questo concordo, fa parte del - diciamo così - atteggiame­nto umano». Ma «è per questo che siamo una parte, è per questo che serve il contraddit­torio, per far vedere anche pezzi che noi senza malafede non vediamo».

al centro Claudio Descalzi AD ENI

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