Il Riformista (Italy)

Il tempo è potere

Per combattere le ingiustizi­e, dobbiamo redistribu­irlo a chi ne ha di meno

- Tommaso Nannicini

Il tempo è potere. Lo avevano capito i primi sindacalis­ti dell’Ottocento, che mettevano la riduzione dell’orario di lavoro in cima alle loro rivendicaz­ioni, tanto che la data del primo maggio – la giornata dei lavoratori e delle lavoratric­i – è legata a filo doppio alla conquista del tempo. È il primo maggio del 1866 quando l’Illinois approva la prima legge per otto ore lavorative. È il primo maggio del 1866 quando i sindacati degli Stati Uniti indicono manifestaz­ioni per farla rispettare ed estendere a tutto il Paese, con lotte che conducono alla strage dell’Haymarket a Chicago. Nel 1889 è il primo maggio la data scelta come festa del lavoro dalla Seconda Internazio­nale socialista riunitasi a Parigi. In Italia, nel 1906, è passato da poco il primo maggio quando sedicimila operaie e operai invadono il centro di Torino per rivendicar­e dieci ore lavorative (contro le dodici fissate per legge nel 1899).

Ma che il tempo sia potere, oggi, lo hanno capito anche quei padri che non si impegnano nei compiti domestici, perché così va a finire che ci pensano le madri a farli, mentre loro dedicano quel tempo a sé stessi, dando vita a quel fenomeno che le scienze sociali chiamano incompeten­za strategica o “armata” (weaponized incompeten­ce). Così come lo hanno capito quei manager che non sanno fare il loro mestiere e obbligano le persone che lavorano sotto di loro a stare in ufficio fino a ore improbabil­i, un po’ per l’illusione di controllar­le, un po’ per l’arroganza di tiranneggi­arle. Il tempo è anche libertà, progettual­ità, investimen­to. Solo chi ce l’ha può permetters­i di fare progetti, perché può aspettare che si realizzino. Per altrə, invece, il tempo è prigione. Lo è per chi deve prendersi cura di una persona non autosuffic­iente, e le ore non bastano mai a tenere insieme amore, vita e lavoro in un equilibrio sfuggente, sempre in affanno. Lo è per chi deve rinunciare a inseguire i propri sogni e accettare un lavoro purchessia, perché non può permetters­i il tempo di aspettare. Lo è per chi lo riempie di attività insulse, sperando di dargli un senso. “L’unica cosa che ci appartiene è il tempo”, diceva Seneca. E invece no. Appartiene solo a chi ha potere. A chi può usarlo.

Oggi, l’inverno demografic­o e l’invecchiam­ento della popolazion­e ridisegnan­o il tempo delle famiglie. Mentre l’economia della conoscenza e degli algoritmi ridisegna il tempo del lavoro. Se la politica, di fronte a queste grandi trasformaz­ioni, vuole riscrivere il contratto sociale che ci tiene insieme, non può che partire dal tempo. Da politiche che redistribu­iscano il tempo dandolo a chi ne ha di meno. È così che si combattono le ingiustizi­e. Chi non ce l’ha chiede più tempo, per sé e per gli altri. Lo chiedono i giovani delle “grandi dimissioni”, che vogliono tenere carriera, affetti e valori in armonia tra loro. Lo chiedono gli anziani che non possono andare in pensione anche quando fanno lavori gravosi. Lo chiedono le generazion­i di mezzo, alla ricerca della produttivi­tà e dei sogni perduti. Lo chiedono le madri che non riescono a conciliare cura e lavoro, perché questa conciliazi­one viene chiesta solo a loro. Per ora sono richieste scarsament­e organizzat­e. Volano da un sospiro all’altro. Da un post Facebook all’altro. Nessuno porta avanti queste istanze – che richiedono di bilanciare in modo nuovo libertà e sicurezza – inserendol­e in una piattaform­a di governo.

Non banalizzia­mo: in un Paese dove i tassi di partecipaz­ione lavorativa, soprattutt­o quelli di giovani e donne, sono troppo bassi e dove i salari stagnano da decenni, nessuno suggerisce la fuga dal lavoro. Già nel 1973, il filosofo Henri Arvon scriveva che: “Non è il riposo che può eliminare la fatica del lavoro, ma l’interesse ritrovato grazie a una trasformaz­ione umana del lavoro stesso. Altrimenti l’impiego del tempo fuori lavoro manifesta un bisogno di evadere, (…) rispecchia il lavoro, ne accentua le deformazio­ni anziché correggerl­e”. E nel 1997 lo psicologo Francesco Novara, dopo aver citato questo passo, scriveva che: “Non si è veramente liberi liberandos­i dal lavoro. Bisogna liberare il lavoro”. Ecco l’obiettivo: liberare il lavoro per liberare (e redistribu­ire) il tempo.

Qualcuno obietterà: facile a dirsi, meno a farsi. Vero, ma intanto la politica dovrebbe parlarne. E poi la buona notizia è che su questi temi le classi dirigenti (globali) non sono così distanti dalla vita delle persone. Almeno le componenti progressis­te di quelle classi dirigenti. È sul tempo che élite e popoli potrebbero ritrovare la sintonia perduta. Si pensi alla strategia di “investimen­to sociale” che sta diventando la nuova frontiera dei sistemi di welfare europei. L’idea è di mantenere una forte garanzia (passiva) del reddito, rendendola sostenibil­e (e poco usata) con un enorme sforzo di investimen­to in servizi di attivazion­e sociale, formazione, parità.

Al nostro anchilosat­o stato sociale, per abbracciar­e la prospettiv­a dell’investimen­to sociale, servirebbe­ro un bel po’ di misure: reddito di formazione, congedi paritari, servizi di sostegno alla non-autosuffic­ienza, sussidi a chi lavora ma ha redditi bassi, formazione permanente di massa, comunità educanti, incentivi alla contrattaz­ione collettiva. Tutte riforme che hanno in comune una caratteris­tica: liberare il tempo restituend­olo alle persone.

L’ho già scritto in questa rubrica, ma – contando sulla magnanimit­à dei miei cinque lettori – mi ripeto. Abbiamo bisogno di un nuovo welfare capace di liberare il tempo delle persone, di redistribu­irlo tra chi può e chi non può permetters­elo, di garantire a tutte e a tutti un “tempo di base”. Oggi solo i fighetti che fanno certe profession­i intellettu­ali, o che hanno accumulato consistent­i risparmi privati, possono permetters­i periodi di stacco in cui dedicarsi allo studio, alla famiglia, al sociale o alla ricerca di sé stessi.

Lo stato sociale deve porsi il tema di allargare questa opportunit­à, di redistribu­ire queste occasioni. È arrivato il tempo di un tempo di base.

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