Trump il ciclone
“Quasi tutti i parlamenti non sono che pollai rumorosi, greppie e fogne”. La frase è di Filippo Tommaso Marinetti e fu scritta un centinaio di anni fa. Potrebbe essere stata pronunciata l’altro ieri. Figlia, allora, delle conseguenze della guerra e della rivoluzione bolscevica, figlia, oggi, di una crisi sociale ed economica, e di valori, che la globalizzazione ha accelerato con una distribuzione della ricchezza che ha premiato il vertice della piramide e regioni del cosiddetto terzo mondo, impoverendo il ceto medio occidentale. L’uomo solo al comando nasce da qui, la tendenza bonapartista nel governo degli Stati nasce da qui. Società slabbrate, in difetto di un racconto corale, assenza di una spinta condivisa indispensabile a superare l’emergenza. In molti, erroneamente, speravano in un rapido ritorno al passato e invece... Aumentano sia il sommerso sia le distanze sociali, prevale la disintermediazione, la politica viene considerata ovunque un accidente di cui liberarsi. Gli ultimi, elettori un tempo della sinistra, scelgono soluzioni drastiche di tutt’altro segno, per questo la vittoria a valanga di Trump in Iowa, la vicenda politica italiana - i successi in linea dei grillini, di Salvini e infine della Meloni - e una miriade di casi del genere in troppi paesi in giro per il mondo non devono stupire.
Torna alla memoria l’intervento pronunciato da Mussolini a Montecitorio nel dicembre del 1924, nella seduta parlamentare che vede Giolitti staccarsi dalla maggioranza e che prepara il discorso del Duce del 3 gennaio del 1925, l’avvio della fase dittatoriale. Puntando il vecchio leader liberale, Mussolini ha parole di fuoco. Nei momenti di crisi, dice, il popolo sceglie le estreme, o noi o i comunisti, non tornerà mai a votare per i liberali.
Esplosione del rancore e della rabbia, desiderio di cambiamenti radicali, esaltazione del mito della violenza, intanto sui social.
La crisi delle democrazie parlamentari, resa più esplicita dalla società liquida tracciata da Bauman - frenetica, individualista, protesa verso il consumo di massa, priva delle sicurezze tradizionali -, ha inaugurato da tempo “l’età del ferro”. I cambiamenti geopolitici, con la caduta del ruolo principe degli Stati Uniti e la nascita di potenze regionali, in assenza dell’Europa come forza compatta, in grado di offrire al mondo una visione del mondo, moltiplica le ragioni di crisi dei pilastri della cultura occidentale. Il Novecento è davvero finito e il rigurgito formidabile dei nazionalismi e degli autocrati non va più considerato una parentesi circoscritta nel tempo e nello spazio. Dovremmo farci i conti sul serio.
La verità è che ci sarebbe bisogno di scelte scomode dentro una cornice governata da gruppi dirigenti diffusi, dotati di forte etica pubblica e di una sincera passione per il bene comune. È possibile?