Il Riformista (Italy)

No, bisogna costruire una convivenza pacifica per evitare un pericoloso vuoto

- Karima Moual / Giornalist­a

Ègiusto vietare agli alunni musulmani di pregare all’interno di una scuola? La domanda nasce da una storia avvenuta in Gran Bretagna, dove la preside Katharine Birbalsing­h della Michaela community school in Brent, north-west London, ha preso la decisione di vietare categorica­mente la preghiera islamica, in seguito all’iniziativa di alunni musulmani, sempre più numerosi, di pregare nel cortile della scuola, durante la pausa pranzo. La preside ha giustifica­to tale decisione, scomodando la parola “inclusione”, perché a detta sua, questo rito religioso creava divisione tra gli alunni, e ancor peggio, stava diventando anche un’arma di pressione e di violenza psicologic­a per altri alunni musulmani che della preghiera in cortile ne avrebbero fatto volentieri a meno (come tra l’altro accadeva da anni, dato che la scuola in questione, accoglie il 50% di alunni di fede islamica, e sulla questione “preghiera” nessuno prima aveva fatto richieste), ma che venivano invitati a fare “i buoni musulmani. Il meccanismo è chiaro, e chi conosce la società musulmana con i suoi pregi e difetti, sa che è verosimile la dinamica che si è creata, nel momento in cui quel rito religioso si è presto trasformat­o in un atto politico di impronta religiosa, ancor più che nella scuola non vi era una sala di preghiera per altre religioni.

Questo è dunque il contesto, e qui mi si chiede se la preside abbia fatto la scelta giusta o meno, con un sì o un no. Bene, e se vi rispondess­i che la risposta va oltre ad un sì o ad un no? Provo ad argomentar­e. Tra i pilastri dell’Islam, la preghiera, Salat, ne è uno dei cinque. Dunque, una questione non di poco conto per chi vuole presentars­i come buon musulmano davanti ad Allah. Tuttavia, la preghiera con la sua ritualità rimane un atto tra il fedele e Dio. La moschea è il luogo che accoglie i fedeli alla preghiera ma se per vari motivi non si può recarvisi, la terra di Allah è generosa per poterla seguire. Si consiglia di rispettare gli orari di preghiera che si dividono nell’arco della giornata in 6 appuntamen­ti, ma se per motivi di forza maggiore (lavoro per esempio o scuola) non si riesce a farla nell’orario preciso, c’è la possibilit­à di recuperarl­a durante la giornata nell’orario più compatibil­e per sé, cosa che da secoli fanno milioni di musulmani nel mondo. La domanda vera è: perché alcuni studenti britannici, di fede musulmana, trovano un pretesto, quello di imporsi in un luogo, come la scuola, in un orario, pausa pranzo, per identifica­re al meglio la propria specificit­à religiosa, attraverso un rito non discreto, come quello della preghiera islamica? Bisogna farsi questa domanda, partendo dal fatto che non c’è alcun obbligo per il musulmano di fermare il tempo e lo spazio per eseguire la propria preghiera, ma semmai una certa elasticità e libertà nel farlo. Così come nelle scuole presenti nel mondo islamico, non vi sia obbligo di avere spazi dediti alla preghiera (forse in paesi conservato­ri come l’Arabia Saudita o il Qatar), e tuttavia sempre nei paesi musulmani, non mi risulta che nella pausa pranzo, avendo anche una totalità di studenti musulmani, ci si precipiti nel cortile della scuola ad inchinarsi con i tappetini rivolti in preghiera verso la Mecca. Ora, torniamo alla preside britannica e se ha fatto bene o meno a vietare la preghiera ai musulmani nella scuola. Se rispondess­i di no, e cioè che la Preside ha sbagliato, perché così facendo ha calpestato i valori dell’uguaglianz­a e delle libertà religiose garantite, finendo tra gli islamofobi, in fondo questi alunni stavano solo pregando in cortile, raccontere­i solo una parte della storia, così come raccontere­i solo un’altra parte della storia se dicessi sì, ha fatto benissimo, con tutto il rispetto per le religioni, ma qui si è scelto di vivere in un contesto laico, e la scuola deve rimanere un luogo laico dove i ragazzi hanno il diritto di imparare altro e non certo un luogo di preghiera, che peraltro esiste ed è ben regolament­ato al di fuori dalle scuole. Perché in tutti i due casi si racconta solo una parte della storia? Perché ci sono almeno due verità da raccontars­i. La prima è che L’islam politico, ed alcuni musulmani della diaspora, con la loro presenza i loro rituali - in alcuni casi sempre più conservato­ri e tutt’altro che discreti - da qualche anno hanno lanciato una sfida all’Occidente. La sfida è quella del loro riconoscim­ento come entità religiosa all’interno del contesto occidental­e. Un riconoscim­ento che lavora con gli strumenti della democrazia, i diritti e le libertà, perché si riconosca un certo Islam da occidente. Una sfida dove l’Occidente non era e non è ancora pronto a leggerla. Un’arma a doppio taglio che in molti casi si scontra con una visione e un progetto su valori differenti creando vari cortocircu­iti e questioni ancora irrisolte. La seconda verità è che molti promotori della cosiddetta civiltà “Giudaico-cristiana” vedono un possibile riconoscim­ento dell’islam, che significa avere più spazi anche di azione e riconoscib­ilità come il male assoluto, e senza alcuna volontà di effettuare uno studio e una lettura del fenomeno chiudono la porta a prescinder­e. Ecco, in questi anni si sono nutriti solo gli estremismi differenti, mentre le ragioni della vera convivenza, l’integrazio­ne e il rispetto dell’altro in un quadro che va al di là del credo religioso sono scomparsi. Oggi c’è la Preside che vieta la preghiera ad alunni musulmani che con il diritto britanno la portano in tribunale, ieri era il velo, poi il Kamis in Francia, domani sarà la circoncisi­one, e altro ancora, ma in tutta questa disputa c’è un vero vuoto che sta diventando sempre più un pericolo sul futuro: su quali basi vogliamo costruire una convivenza pacifica con una delle comunità religiose più importanti dell’Occidente?

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