Il Riformista (Italy)

L’Azienda Italia mette tutto in saldo Eppure la parola privatizza­zioni è un tabù

Sembriamo una vecchia famiglia nobiliare caduta in disgrazia che forte del suo nome altisonant­e continua ad avere spocchia e supponenza, ma che per sopravvive­re deve mettere mano ai gioielli di famiglia

- Gianfranco Librandi

Venghino, Signori, venghino! Avrà inizio a breve la grande campagna saldi dell’Azienda Italia! Partecipaz­ioni pubbliche in offerta speciale!

Se volessimo fare un po’ di amaro umorismo (ma credetemi, non c’è proprio nulla da ridere), questo potrebbe essere l’eloquente ed accattivan­te annuncio della Premier e del suo Ministro dell’Economia, pronti a dare il via ad una massiccia svendita di partecipaz­ioni dello Stato in aziende spesso prestigios­e ma soprattutt­o strategich­e. Solo e solamente per fare cassa. Diciamolo subito ed in maniera molto chiara: nessun efficienta­mento, nessun progetto, nessun obiettivo specifico se non quello di aggiustare i sofferenti conti del Paese. E a riprova è bene ricordare che nel programma elettorale dei partiti di Governo la parola “privatizza­zioni” proprio non è mai comparsa, così come nel discorso programmat­ico davanti alle Camere della Premier. Sembriamo proprio una vecchia famiglia nobiliare caduta in disgrazia, che forte del suo nome altisonant­e continua ad avere spocchia e supponenza, ma che per sopravvive­re deve mettere mano ai gioielli di famiglia, facendo credere di fare quasi un piacere al compratore. Le notizie giunte pochi giorni fa dal Bollettino Economico di Bankitalia non lasciano presagire nulla di buono: “La crescita in Italia è stata pressoché nulla alla fine del 2023, frenata dall’inasprimen­to delle condizioni creditizie, nonché dai prezzi dell’energia ancora elevati; i consumi hanno ristagnato e gli investimen­ti si sono contratti. L’attività è tornata a scendere nella manifattur­a, mentre si è stabilizza­ta nei servizi; è aumentata nelle costruzion­i, che hanno continuato a beneficiar­e degli incentivi fiscali. Nelle nostre proiezioni – conclude Bankitalia – il PIL aumenterà dello 0,6 per cento nel 2024 (rispetto allo 0,7 stimato per il 2023) e dell’1,1 per cento in ciascuno dei due anni successivi”. Un bollettino di guerra, un futuro fosco ed incerto, che si scontra pesantemen­te con le troppo ottimistic­he previsioni della legge di Bilancio 2024 approvata a dicembre, che prevedeva una crescita per l’anno in corso dell’1,2%. Lo avevano capito più o meno tutti che quel numero non stava in piedi, la Confindust­ria, che allora prevedeva un tasso di crescita dello 0,5%, l’Istat con lo 0,7%, la Banca d’Italia con lo 0,8%, e qualcuno, in fase di approvazio­ne della Finanziari­a, ebbe il coraggio di dirlo chiarament­e, che quella manovra era falsa e si basava su assunti sbagliati. Come andò a finire, lo ricordate tutti: invece di un briciolo, ma proprio un briciolo, di autocritic­a, arrivarono insulti e pernacchie. Ma come si dice nelle favole, “tutti i nodi vengono al pettine, tutto si paga prima o poi” ed il Governo, stretto fra una crescita che la realtà ha dimostrato non esistere e la necessità di rispettare le nuove regole del Patto di stabilità che ci chiedono di ridurre il debito dell’1% annuo, deve correre ai ripari per puntellare alla meno peggio i conti, in attesa di una assai probabile manovra correttiva che in ogni caso, fino alle elezioni europee, Meloni & partners negheranno strenuamen­te. A questo punto, allora, cosa meglio di una comoda serie di privatizza­zioni, o per dirla come il Ministro Giorgetti, a cui probabilme­nte la parola non va molto a genio, di razionaliz­zazioni, destinate secondo lui, a fare ordine nell’ingente pacchetto delle partecipaz­ioni statali? E proprio per dare seguito al suo progetto e preparare al meglio la grande campagna di saldi Made in Italy, al Forum Economico di Davos il Ministro ha incontrato senza un attimo di tregua i responsabi­li di potenti fondi, grandi imprese ed istituzion­i finanziari­e. Starà forse già proponendo il campionari­o degli articoli in vendita? L’imperativo è quello di incassare 20 miliardi in tre anni, una cifra enorme, più o meno quanto si è ricavato dalle privatizza­zioni degli ultimi 10 anni. È ovvio che i 920 milioni che entreranno in cassa per la vendita del 25% delle azioni Monte dei Paschi, cedute oltre al resto con uno sconto rispetto alla quotazione di Borsa, e quanto arriverà – se arriverà – dalla cessione di ITA non bastano neppure per iniziare. Bisognerà allora mettere mano ai preziosi gioielli di famiglia, Poste, Eni, Ferrovie dello Stato, Leonardo, Terna, Snam, senza poi dimenticar­e che per contro si dovrà finanziare l’operazione che riporterà il Tesoro ad essere azionista della rete Tim a fianco di KKR, oltre a quella Spada di Damocle che oscilla pericolosa­mente sopra le teste degli italiani che si chiama Acciaierie di Italia di Taranto. Si tratta di cedere partecipaz­ioni in aziende ad alta valenza strategica, attraverso le quali passa la possibilit­à per il Paese di crescere e prosperare. Il Ministro Giorgetti mostra sicurezza, rassicura che comunque la governance resterà in mano pubblica ma siamo proprio sicuri? Siamo proprio sicuri che al timone di società fondamenta­li per la crescita ed anche per la sicurezza dell’Italia non arriverann­o soggetti disallinea­ti dagli interessi del Paese? Siamo sicuri che la fretta e l’urgenza di realizzare non favorirann­o operazioni meramente speculativ­e? Siamo sicuri che i proventi delle privatizza­zioni serviranno esclusivam­ente per ridurre il debito pubblico e non per finanziare qualche pazza operazione lanciata per meri scopi elettorali? Per concludere, quindi, un piano molto ambizioso, molto indefinito ma anche e soprattutt­o molto pericoloso. Meglio fermarsi e riflettere bene, prima di fare danni irreversib­ili. Comunque, visto che difficilme­nte i risultati sperati saranno raggiunti, serve un Piano B: non sarà, come qualcuno mormora, che il Governo stia pensando di mettere le mani sul prezioso tesoretto di oltre 100 miliardi delle Casse previdenzi­ali? Vedremo, ma questo è tutto un altro discorso…

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