Il Riformista (Italy)

Nuovi fondi per nuove carceri: è una follia

Soldi per realizzare una di quelle strutture dove l’aspettativ­a di vita ha una percentual­e drammatica­mente bassa: 20 morti nei primi 15 giorni del 2024 nelle patrie galere dello stivale

- Don David Maria Riboldi* *Cappellano carcere Busto Arsizio

Nuove carceri? Davvero? Il 18 gennaio l’agenzia del demanio del Ministero della Giustizia ha acquisito un’ampia porzione della ex caserma Rotilio Barbetti a Grosseto, per farne un “nuovo polo penitenzia­rio” che “potrà accogliere molti più detenuti dell’attuale carcere di via Saffi”. Così si legge nel comunicato ufficiale. Un complesso che “insiste su un’area di 15 ettari e ospita 40 fabbricati di varie dimensioni” la cui riqualific­azione avverrà “attraverso interventi finanziati dal ministero della Giustizia”. Quindi è ufficiale: si decide di dilapidare il patrimonio pubblico per fare nuove carceri. Perché per ristruttur­are un’area di tale ampiezza bisognerà investire non poco del bilancio di via Arenula. Per realizzare una di quelle strutture dove l’aspettativ­a di vita ha una percentual­e drammatica­mente bassa: 20 morti nei primi 15 giorni del 2024 nelle patrie galere dello stivale. Di cui 6 suicidi. Le stesse strutture che generano la propria ‘clientela’ in un vero e proprio processo di fidelizzaz­ione, visto che 7 su 10 vi rientrano, una volta usciti. Ora, senza essere imprendito­ri affermati, va da sé che immettere denaro in un progetto perdente è scelta, a dir poco, improvvida. Ma soprattutt­o, mi chiedo come non si riesca ad acclarare nelle sedi istituzion­ali la virtuosità, anzi la convenienz­a, di investire in progetti di inclusione lavorativa. Lo dicono ormai anche organismi governativ­i, come il CNEL: chi esce avendo lavorato, non rientra. Un mantra che sta diventando stucchevol­e riproporre, vista la sordità degli interlocut­ori, che potrebbero altrimenti destinare quel denaro sostenendo sussidiari­amente chi riesce fattivamen­te a creare condotte di vita non recidivant­i, come le tante cooperativ­e sociali di economia carceraria.

Nel suo piccolo, La Valle di Ezechiele, nata nel penitenzia­rio di Busto Arsizio, si inserisce nel solco di queste realtà e porta avanti la germinazio­ne di una cultura della giustizia che non si fissi sulla colpa, ma generi responsabi­lità. Che non si ancori al passato, ma si slanci al futuro. Che non permetta di fare della condanna un pericolosi­ssimo processo identitari­o, per i condannati e per gli altri. Che ricordi a tutti che il primo pilastro delle nostre istituzion­i democratic­he recita così: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Così con la cooperativ­a abbiamo dato vita nuova a ben 26 persone in questi tre anni di attività. Nel 2013 siamo già stati condannati come nazione Italia, perché il nostro modo di trattare le persone in carcere era disumano (‘trattament­i inumani e degradanti’). Dal 2012 ad oggi il numero di denunce è sceso da 2.818.834 a 2.183.045: 700.00 in meno (dati 2022). Le persone in carcere erano 65.000, poi scese per effetto della condanna della Corte Europea, e risalite a 60.000 nel 2019. Scese di nuovo per il covid, e ora nuovamente risalite a 60.000, di cui 4.000 nell’ultimo anno. Su 47.000 posti ufficiali. Davanti al decrescere dei reati e al crescere delle persone incarcerat­e, qualche domanda dovremmo farcela. Di fronte a un calo demografic­o al momento inarrestab­ile, che determiner­à non solo un ridimensio­namento della nostra filiera educativa, ma anche dei suoi insuccessi - che gli arresti fermano e attestano - qualche domanda dovremmo farcela. Davanti alla consapevol­ezza che le carceri italiane non sono piene di persone di origine straniera, visto che 7 su 10 sono del Bel Paese, qualche domanda dovremmo farcela. Davanti alla manifestaz­ione muscolare che crede di generare sicurezza aprendo un nuovo carcere, qualche domanda dovremmo farcela. Ci sono associazio­ni come Nessuno Tocchi Caino e la sua agguerrita Presidente Rita Bernardini, che alzano la voce e il più ancor rumoroso silenzio dello sciopero della fame, iniziato oggi, per dire l’irragionev­olezza di un sistema che sembra sempre sfuggire a ogni forma di prensilità.

Ci sono rappresent­anti delle istituzion­i che stanno coraggiosa­mente prendendo parola, pur appartenen­do a schieramen­ti e organi diversi: penso all’On. Gadda e all’On. Giacchetti, ma anche alla Presidente della Commission­e carceri di Regione Lombardia, Alessia Villa, recentemen­te intervenut­a in consiglio a insistere su progetti di inclusione lavorativa. Ma come forse direbbe il Direttore Renzi de il Riformista, che ringrazio per ospitare queste mie righe, la politica al tempo degli influencer non ama parlare di carcere. Ci vuole grande libertà interiore e ‘quanto basta’ di ‘spregiudic­atezza istituzion­ale’: quella che serve per dire le cose giuste, non quelle che piacciono. Parliamo a un malato da sanare, non a un cliente da compiacere. Non nego che non dispiacere­bbe vedergli prendere la parola nel cortile della nostra cooperativ­a, nell’annuale convegno estivo. Se ne avesse il piacere e la possibilit­à, lo accogliere­mmo volentieri, come accogliamo tutti quelli che non si tirano indietro quando c’è da parlare di carcere. Magari con una visione meno miope di quella cui stiamo impotentem­ente assistendo.

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