Il Riformista (Italy)

Sì No & CORI RAZZISTI, GUSTO PREVEDERE LA SCONFITTA TAVOLINO?

Sì, è una misura ancorata al risultato sportivo che porterebbe subito i risultati sperati

- Giacomo Guerrini / Giornalist­a

Una gara a porte chiuse per l’Udinese, è questa la sanzione comminata dal giudice sportivo della Serie A Gerardo Mastrandre­a “in ordine alle manifestaz­ioni di discrimina­zione razziale” nei confronti del portiere del Milan Mike Maignan durante la partita Udinese-Milan del 20 gennaio scorso. Ancora un episodio di ululati e cori razzisti, ancora una volta uno stadio che diventa il luogo dell’odio e dell’intolleran­za. È l’ora di dire basta e di dare un segnale forte, prendendo il “toro per le corna” e superare l’attuale sistema di sanzioni sportive basato sulla chiusura dell’impianto per una, massimo due, giornate, che si è dimostrato incapace di estirpare il razzismo dagli stadi e con coraggio introdurre la sconfitta a tavolino per la squadra i cui tifosi pronuncino insulti razzisti. Una misura forte, una extrema ratio che, una volta applicata, proprio perché ancorata al risultato sportivo, porterebbe immediatam­ente i risultati sperati, pena vedere la propria squadra in fondo alla classifica. In questo senso sono positivi i segni di apertura del Presidente della Fifa Infantino: “Oltre alla procedura a tre fasi (sospension­e della partita, seconda interruzio­ne della partita, partita annullata), va comminata la sconfitta a tavolino per le squadre i cui tifosi si siano resi protagonis­ti di atti di natura razzista - provocando così l’annullamen­to della partita -, così come vanno attuati divieti di accesso agli stadi di tutto il mondo e portate avanti accuse penali nei confronti di chi compie atti razzisti”. Una misura che sicurament­e farà discutere e che infatti ha già visto schierarsi in senso negativo il direttore generale dell’Udinese Franco Collavino: “La partita persa a tavolino apre ad altri problemi. Innanzitut­to l’integrità delle competizio­ni, perché poi queste decisioni avrebbero degli effetti a livello sportivo, e poi è concreto il rischio di speculazio­ni di mettere in mano alle società le più violente delle curve. A mio avviso basta applicare con rigore le norme esistenti”. Ma pensare che si possa scindere il risultato sportivo da quello che succede sugli spalti credo sia il vero scoglio da superare per poter risolvere la questione razzismo negli stadi italiani, che si porta avanti ormai da troppo tempo.

Quello di Maignan infatti è solo l’ultimo caso di insulti razzisti che invadono il rettangolo di gioco: nel 2005 durante un Messina-Inter il difensore Marco André Zoro prese il pallone in mano e uscì dal campo a causa dei ripetuti ululati provenient­i dagli spalti dei nerazzurri; nel 2010 è Samuel Eto’o, la stella dell’Inter del triplete, a ricevere insulti razzisti dai tifosi del Cagliari. In quel caso la partita fu sospesa, come da regolament­o, per poi riprendere con un gol dello stesso Eto’o, che esultò mimando il verso di una scimmia, rivolto verso la tifoseria avversaria. Ma stessa triste sorte è toccata negli anni a Boateng del Milan nel 2013, durante un’amichevole contro la Pro Patria, che vide uscire per protesta i giocatori rossoneri, senza fare rientro in campo; a Koulibaly del Napoli nel 2016, che costò alla Lazio due turni di chiusura della curva nord, e a Muntari nel 2017 in un Cagliari Pescara, che però, al contrario degli altri episodi, costò un’espulsione per proteste proprio all’ex Milan, poi revocata dal giudice sportivo.

Certo è che le norme esistenti sembrano un’arma spuntata di fronte a questi casi. Il Daspo emesso nei confronti degli autori degli insulti (5 anni quello comminato al 46 enne di Udine) è altra cosa rispetto all’esclusione a vita presente in altri campionati, come quello inglese. Per non parlare del piano penale, per cui non costituisc­e reato l’offesa razzista che non si sostanzi in una minaccia. Quello che è altrettant­o certo è che dalle banane lanciate a Taribo West nessun intervento normativo pare aver messo un freno al razzismo negli stadi italiani e, anche dopo Udine, non sembra che nell’agenda del legislator­e ci sia l’argomento. È il momento di una svolta radicale.

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