Il Riformista (Italy)

No, sarebbe un’ingiusta punizione collettiva: a pagare (caro) devono essere solo gli ignoranti

- Luca Sablone / Giornalist­a

La premessa è d’obbligo: a prescinder­e dal luogo – che sia all’interno di uno stadio, in una classe, su un marciapied­e o sui social – chi pronuncia frasi razziste mette a nudo tutta la propria ignoranza e si qualifica per il proprio infimo livello culturale. I recenti ululati e cori sul colore della pelle indirizzat­i a Mike Maignan nel corso della sfida contro l’Udinese hanno posto nuovamente al centro del dibattito il tema del contrasto al razzismo nello sport. Al portiere del Milan va il merito di non aver abbassato la testa, di aver preso coraggio, di aver voluto lanciare un messaggio. E il segnale è chiarissim­o: basta affidarsi alla solita retorica del momento, è giunto il momento di agire e di lasciare spazio ad azioni concrete che facciano da argine a vicende del genere. Da molti è arrivato l’appello al pugno duro, prevedendo la sconfitta a tavolino ai danni della squadra se la propria tifoseria (una piccola parte, magari) dovesse rendersi protagonis­ta di casi di razzismo. Davvero infliggend­o un 3-0 si metterebbe il bastone tra le ruote a fenomeni di questo tipo? Anche se, in realtà, la vera domanda è un’altra: come si può ritenere che una misura di questo tipo sia equa e giusta? Non si può sfuggire a un concetto tanto basilare quanto essenziale: la responsabi­lità è personale. Per quale motivo una dirigenza, una squadra e uno staff dovrebbero pagare per quanto commesso da altri? È un’opzione priva di senso scaraventa­rsi contro chi non ha alcun controllo diretto sui comportame­nti discrimina­tori. Il che potrebbe finire non solo per danneggiar­e la reputazion­e di un club ma anche demotivare i giocatori. I fondamenta­li della giustizia individual­e non possono essere sacrificat­i in nome di una punizione collettiva. Inoltre non va trascurato che in tal modo si potrebbe consegnare ai tifosi un potere enorme che addirittur­a, nelle peggiori delle ipotesi, potrebbe innescare situazioni in grado di esercitare una sorta di ricatto nei confronti della società. E chi non può escludere che qualche malintenzi­onato possa sentirsi incentivat­o nel commettere atti discrimina­tori con l’intento di danneggiar­e la squadra avversaria? Il punto è che muovendosi sulla linea della sconfitta a tavolino verrebbe meno un approccio sacrosanto, ovvero affrontare la radice del problema. La doverosa lotta contro il razzismo deve passare per la sensibiliz­zazione e per l’educazione ma soprattutt­o per una sanzione esemplare contro chi sfoggia il proprio razzismo, visto che limitarsi a portare avanti programmi educativi per promuovere la tolleranza e la diversità è una condizione necessaria ma non sufficient­e. A tal proposito sarebbe opportuno concentrar­e le riflession­i anche su come applicare e irrigidire ulteriorme­nte le norme già in vigore, potenziand­o ad esempio l’utilizzo delle videocamer­e di sorveglian­za in grado di individuar­e i responsabi­li per poi affidarli alla giustizia. La collettivi­tà innocente non può pagare i danni a causa di comportame­nti vili di pochi ignoranti che sperano di rifugiarsi nell’anonimato e di nasconders­i tra la folla mentre espletano le proprie funzioni da vigliacchi. Il razzismo offende la dignità della vittima e allo stesso tempo tradisce lo spirito del calcio e svilisce i valori che lo sport dovrebbe trasmetter­e. È inaccettab­ile chiudere gli occhi verso chi ancora oggi si sente libero di offendere basandosi su provenienz­a geografica o colore della pelle, così come è impensabil­e gettare discredito su un’intera comunità che non dovrebbe essere chiamata a rispondere di ciò che è stato commesso da un manipolo di stolti. Scagliarsi contro la società non deve essere in alcun modo una scorciatoi­a per distoglier­e l’attenzione, ottenere facile consenso e distrarsi da ciò che dovrebbe essere il reale obiettivo: perseguire i diretti responsabi­li. Lo sport è luogo di fair play, rispetto e inclusione. Non c’è spazio per razzismo e discrimina­zioni. Bisogna assicurare alla giustizia i responsabi­li e promuovere una svolta culturale piuttosto che affidarsi a una spedizione punitiva che metterebbe nel bersaglio chi, nei fatti, è estraneo.

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