No, sarebbe un’ingiusta punizione collettiva: a pagare (caro) devono essere solo gli ignoranti
La premessa è d’obbligo: a prescindere dal luogo – che sia all’interno di uno stadio, in una classe, su un marciapiede o sui social – chi pronuncia frasi razziste mette a nudo tutta la propria ignoranza e si qualifica per il proprio infimo livello culturale. I recenti ululati e cori sul colore della pelle indirizzati a Mike Maignan nel corso della sfida contro l’Udinese hanno posto nuovamente al centro del dibattito il tema del contrasto al razzismo nello sport. Al portiere del Milan va il merito di non aver abbassato la testa, di aver preso coraggio, di aver voluto lanciare un messaggio. E il segnale è chiarissimo: basta affidarsi alla solita retorica del momento, è giunto il momento di agire e di lasciare spazio ad azioni concrete che facciano da argine a vicende del genere. Da molti è arrivato l’appello al pugno duro, prevedendo la sconfitta a tavolino ai danni della squadra se la propria tifoseria (una piccola parte, magari) dovesse rendersi protagonista di casi di razzismo. Davvero infliggendo un 3-0 si metterebbe il bastone tra le ruote a fenomeni di questo tipo? Anche se, in realtà, la vera domanda è un’altra: come si può ritenere che una misura di questo tipo sia equa e giusta? Non si può sfuggire a un concetto tanto basilare quanto essenziale: la responsabilità è personale. Per quale motivo una dirigenza, una squadra e uno staff dovrebbero pagare per quanto commesso da altri? È un’opzione priva di senso scaraventarsi contro chi non ha alcun controllo diretto sui comportamenti discriminatori. Il che potrebbe finire non solo per danneggiare la reputazione di un club ma anche demotivare i giocatori. I fondamentali della giustizia individuale non possono essere sacrificati in nome di una punizione collettiva. Inoltre non va trascurato che in tal modo si potrebbe consegnare ai tifosi un potere enorme che addirittura, nelle peggiori delle ipotesi, potrebbe innescare situazioni in grado di esercitare una sorta di ricatto nei confronti della società. E chi non può escludere che qualche malintenzionato possa sentirsi incentivato nel commettere atti discriminatori con l’intento di danneggiare la squadra avversaria? Il punto è che muovendosi sulla linea della sconfitta a tavolino verrebbe meno un approccio sacrosanto, ovvero affrontare la radice del problema. La doverosa lotta contro il razzismo deve passare per la sensibilizzazione e per l’educazione ma soprattutto per una sanzione esemplare contro chi sfoggia il proprio razzismo, visto che limitarsi a portare avanti programmi educativi per promuovere la tolleranza e la diversità è una condizione necessaria ma non sufficiente. A tal proposito sarebbe opportuno concentrare le riflessioni anche su come applicare e irrigidire ulteriormente le norme già in vigore, potenziando ad esempio l’utilizzo delle videocamere di sorveglianza in grado di individuare i responsabili per poi affidarli alla giustizia. La collettività innocente non può pagare i danni a causa di comportamenti vili di pochi ignoranti che sperano di rifugiarsi nell’anonimato e di nascondersi tra la folla mentre espletano le proprie funzioni da vigliacchi. Il razzismo offende la dignità della vittima e allo stesso tempo tradisce lo spirito del calcio e svilisce i valori che lo sport dovrebbe trasmettere. È inaccettabile chiudere gli occhi verso chi ancora oggi si sente libero di offendere basandosi su provenienza geografica o colore della pelle, così come è impensabile gettare discredito su un’intera comunità che non dovrebbe essere chiamata a rispondere di ciò che è stato commesso da un manipolo di stolti. Scagliarsi contro la società non deve essere in alcun modo una scorciatoia per distogliere l’attenzione, ottenere facile consenso e distrarsi da ciò che dovrebbe essere il reale obiettivo: perseguire i diretti responsabili. Lo sport è luogo di fair play, rispetto e inclusione. Non c’è spazio per razzismo e discriminazioni. Bisogna assicurare alla giustizia i responsabili e promuovere una svolta culturale piuttosto che affidarsi a una spedizione punitiva che metterebbe nel bersaglio chi, nei fatti, è estraneo.