Quando l’ideologia prolifera può uccidere
I fondamentalisti pro-vita continuano con il loro sfarfallio sulle donne In che mondo vogliamo vivere, in che mondo vorremmo far crescere le nostre figlie?
Se il nome di Kate Cox ancora non vi dice nulla, allora questa è una storia che vale la pena ascoltare. Kate ha 31 anni e vive nell’area metropolitana di Dallas (Texas) insieme al marito Justin e ai due bambini rispettivamente di tre e due anni. Una coppia americana che definiremmo “semplice”, economicamente sistemata, felice della propria condizione e “proudly Americans” come amano ripetere. Così felici e innamorati della vita che dopo mesi di tentativi, lo scorso agosto Kate ha comunicato a Justin di essere di nuovo in dolce attesa. “Abbiamo due figli che adoriamo assolutamente, e sì, il pensiero di averne un terzo aggiunto alla famiglia è stato incredibile”. Dopo poco, però, i medici comunicano alla giovane coppia che lo screening prenatale ha individuato gravi malformazioni al feto, che risulta affetto da una sindrome - la trisomia 18 - che al 95% lo ucciderà in grembo e che, quand’anche dovesse nascere, comporterebbe atroci sofferenze sia per il neonato che per la stessa Kate. Una notizia che come possiamo forse solo immaginare ha toccato nel profondo i due futuri genitori, suscitando emozioni, pensieri, domande, paure. Sì, soprattutto paure. Perché questo è il sentimento che proverebbe chiunque di noi privato della libertà di poter scegliere. Scegliere di se stessi e non solo. Scegliere di donare una vita o meno. Scegliere persino se e come continuare a vivere la propria di vita.
Tutto questo appare drammaticamente più difficile in uno Stato come il Texas, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è vietata da una legge che prevede fino a 99 anni di prigione per i medici che la praticano, oltre che la perdita immediata della licenza e una multa da 100mila dollari. Dopo aver denunciato pubblicamente la sua situazione in una struggente lettera al Dallas Morning News, Kate si è appellata alla Corte Suprema del Texas, che ha tuttavia stabilito come le poche eccezioni previste dalla durissima legge antiaborto non siano applicabili al suo caso. Solo il 12 dicembre la Corte Suprema federale ha rovesciato il verdetto del Texas, costringendo tuttavia Kate a lasciare la città e lo Stato dove è nata e cresciuta per poter iniziare le pratiche di aborto in uno Stato dove sono consentite. Questa è la drammatica realtà degli Stati Uniti a due anni da quel 24 giugno 2022 nel quale la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la storica sentenza Roe vs Wade del 1973 che garantiva in tutti gli Stati il diritto all’aborto. Da allora 26 stati su 50 hanno imposto limiti alla pratica, 14 dei quali vietandola sin dal concepimento e riducendo al minimo le eccezioni, anche in casi di stupro e gravi impedimenti sanitari. Messo a fuoco il contesto americano, proviamo per un attimo a compiere un (non semplice) esercizio di surrealtà e a spostarci in Italia, dove a dicembre 2023 (2023!) sono state depositate in Cassazione 106mila firme ad una petizione popolare lanciata dal (fortunatamente ex) senatore leghista Pillon e dai movimenti cosiddetti “pro-life” per chiedere di modificare la Legge 194 del 1978 (1978!) inserendo l’obbligo per i medici di mostrare alla donna che sceglie di abortire non solo l’immagine del feto, ma anche il suo “battito cardiaco”, sul modello di quanto già avviene nell’Ungheria di Orban (non esattamente riferimento di democrazia liberale compiuta). Al netto di ogni opinione, mi ha colpito molto l’intervista alla ginecologa e attivista americana Nisha Verma dell’American College of Obstetricians and Gynecologists, che già tempo fa ha dimostrato come il termine “battito” associato ad un feto di poche settimane non sia accurato e anzi fuorviante dal punto di vista medico, per il semplice fatto che quello che noi conosciamo come “battito cardiaco” è generato dall’apertura e dalla chiusura delle valvole cardiache che nel feto in via di sviluppo, semplicemente, non esistono! Lo sfarfallio di cui parlano i fondamentalisti pro-vita, con il quale vorrebbero torturare le donne italiane per legge, non è altro che un suono elettrico prodotto dalle macchine mediche. Ora, senza allarmismi ingiustificati, tenendo a mente l’impegno solenne della Premier Giorgia Meloni di non voler in nessun modo toccare la Legge 194, è ragionevole fermarsi e chiedersi in che mondo vogliamo vivere, in che mondo vorremmo far crescere le nostre figlie. Perché io non sono assolutamente sicuro che sia simile a questo.