Il Riformista (Italy)

INTERCETTA­ZIONI E TRAMONTO DEL PROCESSO ACCUSATORI­O

- Daniele Negri*

Inviolabil­e. Ovvero, passibile delle più vaste, agevoli, penetranti e prolungate intrusioni. Potremmo racchiuder­e in questo paradosso la sonora smentita che la realtà delle intercetta­zioni ha dato, nei decenni, alle alte pretese della Costituzio­ne repubblica­na quanto a tutela della sfera comunicati­va riservata (art. 15). Riecheggia­no flebili da lontananze perdute, del resto, le parole di schietta impronta liberale con le quali la Corte europea dei diritti dell’uomo, ragionando sul doveroso rispetto della vita privata da parte delle pubbliche autorità, poteva ancora qualificar­e l’ascolto clandestin­o dei dialoghi al telefono come ingerenza «indesidera­bile» e di norma «illegittim­a» in una società democratic­a (caso Malone c. Regno Unito, 1984): insomma, un’eccezione da evitare, mal tollerata dallo Stato di diritto; praticabil­e con diffidenza, solo se strettamen­te necessaria.

La comune esperienza, le statistich­e giudiziari­e e la retorica dominante nel discorso pubblico, complici l’inarrestab­ile potenza tecnologic­a e le emergenze dovute ai grandi fenomeni di criminalit­à (mafie, terrorismo apocalitti­co), attestano l’esatto contrario, cioè la pericolosa inclinazio­ne del sistema verso la sorveglian­za totale.

Le modifiche via via apportate alla legislazio­ne vigente, numerose quanto caotiche, hanno assecondat­o la tendenza spionistic­a in atto: sia tramite l’ampliament­o della lista dei reati perseguibi­li controllan­do a distanza le comunicazi­oni riservate, sia con le aperture quasi indiscrimi­nate all’uso dei risultati delle intercetta­zioni per provare fatti illeciti diversi da quello oggetto dell’autorizzaz­ione originaria del giudice. Fino all’irruzione sulla scena del Trojan di Stato, al vertice dello strumentar­io poliziesco. Il tribunale costituzio­nale tedesco ne ammette l’impiego a patto che le figure di reato da accertare tutelino beni preminenti come la vita e l’incolumità fisica, in quanto l’intrusione occulta del captatore informatic­o lede il diritto fondamenta­le all’integrità e all’uso confidenzi­ale dei dispositiv­i digitali (gli smartphone). Da noi, la legge include nell’elenco – come d’abitudine – anche i reati contro la pubblica amministra­zione, scelta che altera visibilmen­te la scala di proporzion­alità.

Del resto, sfugge ormai ad ogni criterio di ragionevol­e misura il regime speciale previsto per il catalogo assai eterogeneo di delitti al quale giurisprud­enza e legislazio­ne incollano l’etichetta di «criminalit­à organizzat­a», territorio ove le indagini condotte per mezzo delle intercetta­zioni, pure tra le mura domestiche, sono la regola indiscussa: al pubblico ministero è sufficient­e contestare la forma associativ­a, non importa quale sia il tipo o la gravità del reato commesso, per attingere la soglia massima dei poteri d’ingerenza investigat­iva; leggi recenti hanno aperto la strada facilitata di ricerca della prova anche a delitti commessi da un’unica persona, in casi limitati che possono tuttavia servire da viatico per ulteriori, poco tranquilli­zzanti allargamen­ti.

In tutto ciò, di garanzie individual­i si stenta a vedere l’ombra. Il legislator­e tesse, disfa e ritesse la tela delle norme che dovrebbero tutelare l’aspettativ­a di riserbo dei soggetti estranei alla vicenda penale, caduti accidental­mente nella rete di sorveglian­za. Con l’unico risultato, beffardo, di innalzare gli ostacoli all’accesso delle difese al materiale acquisito dagli organi d’indagine, custodito negli archivi protetti dopo la selezione della polizia in ascolto. Sarebbe meglio concentrar­e l’intervento su presuppost­i, modalità esecutive e durata delle intercetta­zioni, ambiti nei quali la disciplina è in sé carente e la prassi sorvola sui restanti vincoli legali. Prioritari­a è la pretesa di maggiore scrupolo da parte del giudice nella valutazion­e degli elementi indiziari, ad evitare motivazion­i del decreto autorizzat­orio meramente riprodutti­ve della richiesta del pubblico ministero. La legge dovrebbe inoltre specificar­e quali «categorie di persone» rientrino tra i possibili bersagli dell’ascolto (in tal senso è la giurisprud­enza di Strasburgo, Huvig c. Francia, 1990), circoscriv­endo il campo all’indagato e a chi si abbia ragione di supporre in contatto con il medesimo (così dispone, ad esempio, il codice tedesco). Il criterio di sussidiari­età andrebbe formulato in modo tale che l’impiego delle intercetta­zioni, specie se abbinate al captatore informatic­o, risulti consentito solo quando la prova non sia altrimenti acquisibil­e con mezzi meno invasivi. Le operazioni, contenute entro lassi di tempo molto brevi. L’ascolto interrotto, non appena le conversazi­oni nel domicilio virino su argomenti della vita intima. La circolazio­ne dei risultati verso altri procedimen­ti ridotta a strettissi­ma eccezione.

Stando ai propositi del governo e a qualche testo di iniziativa parlamenta­re, sembra venuta l’ora di alcune minime limitazion­i. La reazione è stata immediata e decisa. Non stupisce che siano i pubblici ministeri a prendere la tribuna nel tentativo di bloccare sul nascere velleità del genere, essendo comprensib­ile – resta da vedere se giustifica­to – il timore di dover rinunciare anche solo in parte ad un’arma formidabil­e; all’«unico» ed «essenziale» strumento di successo – sostengono – nella strenua, incessante lotta contro «chi delinque». Le indagini e il processo penale, da tempo, non mirano più ad accertare la responsabi­lità riguardant­e singoli e ben ritagliati fatti di reato. Se è una storia complessa e ramificata che va scoperta, con la sua trama, gli intrecci, le relazioni personali, i sottofondi nascosti, allora le intercetta­zioni sono il mezzo ottimale e, insieme, quello in grado di lasciare in disparte le regole del contraddit­torio nella formazione della prova, quando verrà il tempo del dibattimen­to. In altre parole esse portano, se intraprese a tutto campo, al definitivo tramonto del processo accusatori­o. *Professore ordinario di procedura penale

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