Il Riformista (Italy)

SEDUTI IN RIVA AL FOSSO

- Giuseppe Belcastro*

L’intrusione smodata e terribile che le intercetta­zioni producono nella sfera più intima della vita personale dei bersagli – che è poi la stessa caratteris­tica che le rende potenzialm­ente così efficaci – rende ragione della doppia copertura costituzio­nale loro dedicata, la quale, alla ricerca del punto di equilibrio tra sicurezza collettiva e libertà individual­e, impone una legge per regolarne i presuppost­i e un provvedime­nto giurisdizi­onale per autorizzar­le. Il sistema, dunque, sembra ben congegnato.

Come può allora accadere, con frequenza inaccettab­ile, che esse producano errori della portata di quelli che segnaliamo oggi sulla Quarta Pagina, in grado persino di compromett­ere definitiva­mente il corso della vita di chi ne sia vittima? La risposta non è semplice, ma una consideraz­ione di carattere generale sulla natura per così dire struttural­e del mezzo può indirizzar­e. L’intercetta­zione – per fermarsi all’esempio delle telefonich­e che hanno incidenza percentual­e maggiore in assoluto (oltre l’80% nel 2019, stando al rapporto DGStat del Ministero della Giustizia) – coglie e immortala la storia di un dialogo, consentend­one la rilettura e il trasferime­nto (anche) nella sede processual­e.

E questo è il punto: l’operazione di rilettura – non meno importante del contenuto stesso della intercetta­zione, perché di quel contenuto in certa misura partecipa – è condiziona­ta da una serie di fattori in grado di alterarne i risultati. Al netto delle manipolazi­oni volontarie, che qui non rilevano, basti solo pensare che, del dialogo captato, in dibattimen­to arriva nella quasi totalità dei casi soltanto l’eco scritta della perizia trascritti­va la quale, pur fatta la tara dei possibili errori di ascolto, perde per definizion­e ogni significat­o sonoro, laddove invece una comunicazi­one (che è poi ciò che la legge prevede si intercetti) è fatta anche di pause, toni, tempi e ritmi che la carta non può restituire. E se a ciò si aggiunge che, nel dialogare in libertà, mille e più possono essere le ragioni per discostars­i dal vero; che gli strumenti tecnici non sempre garantisco­no la necessaria qualità dei dati captati con conseguent­i problemi di intelligib­ilità; che il bias cognitivo, nei casi in cui la difficoltà interpreta­tiva è maggiore, è scientific­amente più in agguato che altrove, ci si potrà incomincia­re a fare un’idea di come quegli errori siano possibili. Le intercetta­zioni, insomma, della cui preziosa utilità non può dubitarsi, sono strumento tutt’altro che preciso e oggettivo. (Ecco perché vien da sorridere ad ascoltare la cantilena naïve dell’intercetta­teci tutti che ancora, con certe cadenze, viene propinata). La fallibilit­à del mezzo non lumeggia però del tutto le cronache che raccontiam­o, per spiegarsi l’effettiva incidenza delle quali serve il fattore aggiuntivo dell’enormità del numero di casi nei quali si ricorre a questo strumento investigat­ivo. Controintu­itivamente, infatti, anziché ripetere dalle segnalate criticità l’indicazion­e ad un uso scrupoloso della intercetta­zione, magari orientato al riscontro delle altre prove tradiziona­lmente raccolte, essa è ormai divenuta da qualche lustro la dominatric­e incontrast­ata dell’armamentar­io investigat­ivo delle Procure d’Italia; con l’avallo – va detto – talvolta troppo sbrigativo di una giurisdizi­one non sempre perfettame­nte avveduta dei rischi.

La verità, forse, è che l’intercetta­zione è uno strumento che restituisc­e materiali succulenti, ché anche quando non servono a fare processi tornano buoni per fare i titoli dei giornali; uno strumento che costa molti soldi, ma poca fatica, perché è indubbiame­nte comodo starsene seduti in riva al fosso, aspettando muniti di cuffie la parola che appaia risolvere il caso, piuttosto che scorrazzar­e per le strade a seguire, domandare, raccoglier­e tasselli investigat­ivi e poi magari provare pure a metterli insieme. *Avvocato penalista

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