SEDUTI IN RIVA AL FOSSO
L’intrusione smodata e terribile che le intercettazioni producono nella sfera più intima della vita personale dei bersagli – che è poi la stessa caratteristica che le rende potenzialmente così efficaci – rende ragione della doppia copertura costituzionale loro dedicata, la quale, alla ricerca del punto di equilibrio tra sicurezza collettiva e libertà individuale, impone una legge per regolarne i presupposti e un provvedimento giurisdizionale per autorizzarle. Il sistema, dunque, sembra ben congegnato.
Come può allora accadere, con frequenza inaccettabile, che esse producano errori della portata di quelli che segnaliamo oggi sulla Quarta Pagina, in grado persino di compromettere definitivamente il corso della vita di chi ne sia vittima? La risposta non è semplice, ma una considerazione di carattere generale sulla natura per così dire strutturale del mezzo può indirizzare. L’intercettazione – per fermarsi all’esempio delle telefoniche che hanno incidenza percentuale maggiore in assoluto (oltre l’80% nel 2019, stando al rapporto DGStat del Ministero della Giustizia) – coglie e immortala la storia di un dialogo, consentendone la rilettura e il trasferimento (anche) nella sede processuale.
E questo è il punto: l’operazione di rilettura – non meno importante del contenuto stesso della intercettazione, perché di quel contenuto in certa misura partecipa – è condizionata da una serie di fattori in grado di alterarne i risultati. Al netto delle manipolazioni volontarie, che qui non rilevano, basti solo pensare che, del dialogo captato, in dibattimento arriva nella quasi totalità dei casi soltanto l’eco scritta della perizia trascrittiva la quale, pur fatta la tara dei possibili errori di ascolto, perde per definizione ogni significato sonoro, laddove invece una comunicazione (che è poi ciò che la legge prevede si intercetti) è fatta anche di pause, toni, tempi e ritmi che la carta non può restituire. E se a ciò si aggiunge che, nel dialogare in libertà, mille e più possono essere le ragioni per discostarsi dal vero; che gli strumenti tecnici non sempre garantiscono la necessaria qualità dei dati captati con conseguenti problemi di intelligibilità; che il bias cognitivo, nei casi in cui la difficoltà interpretativa è maggiore, è scientificamente più in agguato che altrove, ci si potrà incominciare a fare un’idea di come quegli errori siano possibili. Le intercettazioni, insomma, della cui preziosa utilità non può dubitarsi, sono strumento tutt’altro che preciso e oggettivo. (Ecco perché vien da sorridere ad ascoltare la cantilena naïve dell’intercettateci tutti che ancora, con certe cadenze, viene propinata). La fallibilità del mezzo non lumeggia però del tutto le cronache che raccontiamo, per spiegarsi l’effettiva incidenza delle quali serve il fattore aggiuntivo dell’enormità del numero di casi nei quali si ricorre a questo strumento investigativo. Controintuitivamente, infatti, anziché ripetere dalle segnalate criticità l’indicazione ad un uso scrupoloso della intercettazione, magari orientato al riscontro delle altre prove tradizionalmente raccolte, essa è ormai divenuta da qualche lustro la dominatrice incontrastata dell’armamentario investigativo delle Procure d’Italia; con l’avallo – va detto – talvolta troppo sbrigativo di una giurisdizione non sempre perfettamente avveduta dei rischi.
La verità, forse, è che l’intercettazione è uno strumento che restituisce materiali succulenti, ché anche quando non servono a fare processi tornano buoni per fare i titoli dei giornali; uno strumento che costa molti soldi, ma poca fatica, perché è indubbiamente comodo starsene seduti in riva al fosso, aspettando muniti di cuffie la parola che appaia risolvere il caso, piuttosto che scorrazzare per le strade a seguire, domandare, raccogliere tasselli investigativi e poi magari provare pure a metterli insieme. *Avvocato penalista