ImmensoBenigni,ennesima laurea honoris causa
Chi se lo sarebbe immaginato nel 1977, guardando quel toscano secco e allampanato vestito in modo improbabile in “Berlinguer ti voglio bene”, mentre vagava imprecando e bestemmiando per i campi della periferia di Prato, che sarebbe finita così? Roberto Benigni, settantadue anni il prossimo ottobre, ha ricevuto ieri nella sede romana della Notre Dame University la sua undicesima laurea honoris causa, indossando sorridente il tocco ottagonale e la tunica viola e oro d’ordinanza. Notre Dame è un’università americana cattolica, che ha voluto celebrare il guitto italiano - che tanto guitto più non è, e non certo per via delle certificazioni che sta collezionando - per il suo lavoro di attore, regista e sceneggiatore. Nella motivazione che ha accompagnato la celebrazione si legge: “attraverso la sua narrazione innovativa e schietta, ha invitato tutti coloro che sperimentano la sua arte a un rapporto più profondo con l’umanità e il divino, riuscendo a illuminare percorsi di speranza e bellezza anche nel mezzo di indicibili tragedie e disperazione»”. Con lui, premiati dal presidente dell’Università, John I. Jenkins, anche la direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta, e segretario del dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani Monsignor Brian Farrell L.C., definiti con Benigni “tre leader eccezionali nei rispettivi campi“da Jenkins. E un ispiratore, un “motivator” come va di moda chiamarli ora, Benigni lo è certamente: il ragionier Roberto Remigio Benigni, nato nella campagna aretina più povera da genitori contadini - «mia madre mangiava cocomero mentre era incinta di me, era debole e temeva di non farcela a farmi nascere», dice l’attore - cresciuto nella piatta periferia tra Prato e Firenze e diventato attore per seguire la sua vena estroversa e istrionica, ha cambiato pelle innumerevoli volte, passando da essere un burlone irriverente al limite del surrealista, ostracizzato dalla Rai per le troppe gonne sollevate alle soubrette e soprattutto per quel “Wojtylaccio” che oggi farebbe solo sorridere ma che al tempo gli fece perfino subire un processo in Vaticano per vilipendio al capo di Stato che lo costrinse al pagamento di un milione di lire di multa, è diventato poi interprete raffinato con Fellini, attore comico celebrato internazionalmente e regista da Oscar (ormai iconico l’urlo di Sofia Loren “Robeeeerto!” al momento della declamazione) con il suo “La vita è bella”. Per passare in seguito alle letture dantesche, con i canti della Divina Commedia spiegati in modo comprensibile a tutti e recitati a memoria, alle celebrazioni della Costituzione Italiana, alla trasformazione insomma in simbolo di cultura nostrana, sensibile e autentica. Durante la consegna del riconoscimento, il Roberto nazionale ha cominciato i ringraziamenti in quell’inglese maccheronico e divertente che abbiamo imparato ad amare nel bizzarro film “Daunbailò”, con cui ha commentato di non meritare l’attestato, e ha proseguito in italiano strappando più di un sorriso quando ha commentato che la Notre Dame “è l’università più prestigiosa al mondo, e ora, dopo il mio dottorato onorario, ancora di più”. Ha poi parlato di amore, un argomento che ricorre spesso nei suoi monologhi sempre pieni di gratitudine e spiritualità, conducendo quindi una lectio magistralis sulla figura della Madonna - la Notre Dame che dà il nome all’Università - attraverso tre rappresentazioni piene di significato per la sua storia personale: la Madonna del parto di Piero della Francesca, quella di Lorenzo Lotto e la Madonna Sistina di Raffaello. Ai giornalisti che lo attendevano all’esterno ha dichiarato che avrebbe voglia di tornare a girare un film - non lo vediamo dietro la macchina da presa dal 2005 - «un film piccolo, ricco di sentimenti, personale ma destinato a regalare spensieratezza in questo momento così pieno di sofferenze per il mondo. Dolore e allegria vanno di pari passo e il compito degli artisti è regalare gioia», ha spiegato, citando i recenti lavori di Paola Cortellesi e Matteo Garrone come esempi virtuosi