TORNA IL CAPPIO?
Centrodestra alla sovietica
Siamo in pandemia. Un virus, credo si chiami ‘Sovietichite reflexa’, dilaga ormai nella nostra amata Nazione e scatena deliri alla coreana (del nord) e qualche complesso di sudditanza verso la manfrina mainstream statalista che subordina la cittadinanza a un nuovo concetto strambo, quello di fedeltà fiscale, e che vuole i cittadini controllati anche se vanno al bagno. Ha colpito da anni ormai irrimediabilmente la sinistra, quella del ‘pagare le tasse è bellissimo’ e secondo cui si è ricchi se si guadagna 50mila euro lordi l’anno, ma sta contagiando evidentemente anche la destra, forse stanca di condurre una battaglia contro l’oppressione fiscale senza averla nemmeno cominciata, e che ricerca l’applauso di chi fino a ieri le dava dell’amica degli evasori. Il Governo studia il Data Scraping. Tradotto: professionisti e imprenditori verranno giudicati dal Fisco anche per quel che postano sui social. Si, si avete capito bene. E i loro post sui social (sic) subiranno un vaglio di congruenza con la loro dichiarazione dei redditi. Straordinario. Capiremo come funzionerà, ma quel che ha detto ieri il viceministro Leo io me lo aspetto in Corea del Nord. “Professionisti e imprenditori vanno su internet e sui social e dicono dove sono stati in vacanza o in quale ristorante”, dice il Viceministro Leo, e dunque verranno ‘indagati’ dal fisco. Cosa, cosa…? Ma perché: in vacanza e a cena ci vanno solo professionisti e imprenditori? Dicono anche se hanno pagato loro, e quanto? E dopo di che? A che livello di polizia tributaria vogliamo arrivare?
Che se pubblico una foto in barca o su una bella macchina devo specificare nella didascalia se è a noleggio o di un amico, o se scatto a cena fuori con un’amica devo specificare se paga lei, altrimenti arriva la Finanza? Stiamo davvero esagerando. Ed è lunare che sia il centrodestra a comprimere le libertà individuali per soddisfare la sete che ha del nostro denaro, fino a prova contraria guadagnato lecitamente e che dovremmo spendere come cavolo ci pare, uno Stato che spreca a rotta di collo ma cui non si può obiettare nulla, perché siamo dei bancomat della spesa pubblica più pazza del mondo. Io a Roma pago una valanga di tasse, e quando vedo che esse servono al Comune per dare 250mila euro a un cinema occupato, mi girano le scatole. Si può dire?
“Eh ma l’evasione fiscale è come il terrorismo”, ribatte il viceministro Leo. Benissimo. Ma ancora una volta: l’evasione fiscale è effetto dell’eccesso di pressione fiscale generata dallo sperpero che compie lo Stato. Non ne è la causa. A volte è addirittura legittima difesa, o di necessità, come dicono quelli bravi (l’ex Presidente della Repubblica Einaudi arrivò a definirla, sul Corriere della Sera, nel 1907, l’unica difesa possibile del contribuente contro lo Stato vessatorio e dalle pretese esorbitanti). Se si vuole, come è giusto sia, che tutti o quasi paghino tutte le tasse, le si deve abbassare assai, tagliando prima la spesa pubblica, e smettendo di buttare soldi. Altro che polizia dei social.
Basta veti. Basta bastoni tra le ruote. L’Europa deve andare avanti e non può più perdere tempo con Viktor Orban. Il Consiglio straordinario europeo che si apre oggi a Bruxelles è uno degli ultimi utili prima del voto di giugno, assume il peso e il valore del passaggio definitivo. Charles Michel lo scrive chiaro nella tradizionale lettera di invito inviata ai leader dei 27 che stanno raggiungendo la capitale belga. Si scrive Ucraina, ma si legge rispetto dei diritti e condivisone delle scelte. È in gioco l’Europa e il suo ruolo nel nuovo mondo dove Russia e Cina vorrebbero dettare l’agenda e gli Stati Uniti potrebbero voltarsi dall’altra parte e finire nelle mani di Trump. “Nella nostra ultima riunione di dicembre - scrive il presidente del Consiglio europeo e padrone di casa - 26 leader hanno sostenuto una serie chiara di priorità principali: sostegno all’Ucraina, gestione della migrazione e della sua dimensione esterna, sostegno ai Balcani occidentali e risposta alle catastrofi naturali. Questo schema negoziale pone le basi per la conclusione di un accordo a 27” con Orban, quindi, che a dicembre decise di non decidere e non partecipò alla votazione. “Garantire un accordo è vitale per la nostra credibilità”, insiste Michel. In queste poche righe c’è il senso e la missione di un’intera legislatura. Il fallimento sarebbe definitivo. Siamo dunque al momento delle verità sul premier ungherese. È in gioco finanche la sua permanenza nell’Unione europea. E potrebbe non essere una coincidenza che questo momento della verità incroci il caso di Ilaria Salis, la maestra italiana detenuta da undici mesi a Budapest in condizioni incivili per accuse che lei rifiuta (l’aggressione a due naziskin) e che tutto il mondo ha visto trascinata in catene ai polsi e alle caviglie nell’aula del tribunale che la sta giudicando. La donna potrebbe essere merce di scambio e di ricatto sul tavolo di partite politiche europee. Tutti sanno, a cominciare da Michel e von der Leyen, che Orban è amico di Giorgia Meloni (si sono sentiti martedì sera) e di Matteo Salvini. Il ruolo di mediazione del governo italiano potrebbe quindi giocare a difesa del leader ungherese nella partita europea in cambio, magari, di un via libera ai domiciliari per Ilaria Salis. Ma torniamo a Bruxelles. Il Consiglio di oggi è stato convocato da Charles Michel per uscire dallo stallo del veto ungherese sul pacchetto di aiuti da 50 miliardi di euro per l’Ucraina. La Commissione vorrebbe darli in un’unica soluzione votando oggi la revisione intermedia del bilancio europeo (QFP). Orban invece vuole che questi soldi vengano dati di anno in anno. Potendo quindi esercitare ogni volta il diritto di veto che utilizza sempre più spesso anche su altri dossier. Al momento il vertice sembra destinato ad un fallimento con implicazioni gravi per Kiev e per la credibilità dell’Unione. È chiaro che non si parla solo di aiuti midi litari ma di dare continuità alla scelta dell’Unione di difendere le democrazie dall’aggressione di un paese straniero. I tentativi di trovare un compromesso sembrano pregiudicati per via delle fughe di notizie sulla possibilità che la Ue usi l’articolo 7 del trattato per privare l’Ungheria del diritto di voto o decida di sanzionare Budapest privandola dei fondi europei per danneggiare la sua economia. La questione può essere riassunta così: Orban deve decidere se stare con la Ue o contro l’Unione; gli altri ventisei leader devono decidere se andare fino in fondo per risolvere il problema Orban, privandolo di veti, voti e soldi, anche a costo di innescare un doloroso processo di uscita dell’Ungheria dall’Ue. La fuga di notizie (Financial Times) anziché spingere Orban a ritirare il suo veto, ha alimentato la narrazione ungherese sulla Ue che vuole distruggere l’Ungheria per ragioni politiche con l’arma dello stato di diritto. Lo staff di Michel ha precisato che il documento del Financial Times è “una nota background redatta dal Segretariato del Consiglio”, nulla a che vedere insomma “con lo stato dei negoziati in corso sulla revisione del quadro finanziario pluriennale”. Negoziati che, secondo altre fonti del Consiglio, si fondano invece “sulla ricerca di un compromesso accettabile per tutti i 27 Stati membri dell’UE”. Al momento la delegazione ungherese a Bruxelles ha messo sul tavolo una serie di condizioni per dare il via libera ai fondi per l’Ucraina: una revisione annuale con voto all’unanimità sui fondi; l’esenzione dal pagamento della propria parte per fare fronte all’aumento dei tassi d’interesse dei prestiti del Next Generation Eu e una proroga di due anni per l’attuazione del Pnrr. Richieste giudicate irricevibili. Soprattutto nessuno vuole più fornire a Orban lo strumento del veto per poter ricattare l’Unione europea ogni anno quando il Consiglio dovrà approvare all’unanimità i fondi per Kiev. Al massimo si potrà concedere quello che viene definito “un freno di emergenza” per affrontare la questione e dirimerla con un voto a maggioranza qualificata. Le altre richieste - proroga del Pnrr e pagamento dell’aumento degli interessi - sono irricevibili per questioni di principio.
Sullo sfondo della trattativa c’è poi il famoso elefante nella stanza: i fondi Ue bloccati all’Ungheria a causa delle carenze nello Stato di diritto. Si tratta di poco più di 21 miliardi di euro. Budapest ne chiede lo sblocco visto che si parla di bilancio. La Commissione e gli altri Stati insistono sul fatto che non si possono “politicizzare” i fondi della Commissione europea. Ci sono invece delle condizioni che devono essere rispettate. I tecnici studiano i possibili piani B. Uno prevede che oggi Orban rinunci all’ultimo momento al veto sull’Ucraina. Come era già successo a dicembre. Le questioni ungheresi sullo stato di diritto in Ungheria potrebbero così essere dimenticate fino alle elezioni. Ilaria Salis compresa. Su cui, non a caso, la Lega sta facendo una gravissima campagna di discredito.