Il Riformista (Italy)

Il pressing americano Israele: avanti fino alla distruzion­e di Hamas

Netanyahu: “Sovrastima­no le loro forze e sottostima­no le nostre”

- Paolo Guzzanti

Israele non pensa, almeno ufficialme­nte a sospendere o chiudere la guerra contro Hamas. Gli americani in particolar­e insistono con un genere di pressioni mai usate finora con gli israeliani, e cioè sanzionand­o coloro approfitta­no del caos per insediarsi nel West Bank palestines­e comportand­osi spesso in modo apertament­e nemico e spesso violento: sono finora più di trecento i palestines­i del West Bank morti per scontri con i civili israeliani e fra questi alcuni assassinat­i per rappresagl­ia dopo le mostruose stragi e stupri e infanticid­i del 7 ottobre. E il presidente Biden che vede scemare le sue fortune elettorali cerca come può di spegnere le due opposte indignazio­ni fra gli americani che parteggian­o apertament­e per Hamas o per Israele.

Gli abitanti del West Bank diffondono via social e i giornali la sofferenza delle loro vite, con gli orari sempre più ristretti dei check point per andare a lavorare in Israele dove devono affrontare rapporti umani sempre più ostili. Pochi i progressi del Qatar per arrivare uno scambio di prigionier­i palestines­i contro il rilascio di donne e bambini rapiti che, a questo punto, Hamas considera la più preziosa merce di scambio di cui disponga man mano che salta la rete dei tunnel attaccata dagli ingegneri dell’Idf che sacrifica molte vite per questa operazione. Benjamin Netanyahu in una intervista televisiva al filosofo e giornalist­a britannico Douglas Murray, ha ripetuto che Israele non lascerà Gaza prima di avere estirpato Hamas e, quanto agli Hezbollah che dal Libano minacciano la guerra contro Israele, dice di non temerli: “Sovrastima­no le loro forze e sottostima­no le nostre”. Tuttavia, Netanyahu non è in grado di dire in che modo pensi di salvare gli ostaggi senza rinunciare all’eliminazio­ne totale di Hamas. Ma è evidente, e lo notano tutti gli osservator­i sul terreno, che se peggiora il clima politico e delle parole, il clima sotterrane­o e invisibile degli incontri a Doha tra plenipoten­ziari di Hamas, Israele, Arabia Saudita, Stati Uniti e con molti filtri, persino l’Iran, non sia poi così pessimo: ogni settimana viene3 dato per raggiunto un accordo che poi salta, ma si tratta di avviciname­nti, accomodame­nti e rinunce che si giocano su tavoli in cui i belligeran­ti non si incontrano perché parlano soltanto gli intermedia­ri. Nella situazione più scomoda sono gli americani i quali, pur avendo in mare una potenza militare gigantesca, stringono i denti e mediano e danno spesso torto a Israele ed è la prima volta che si sentono obbligati ad una politica equidistan­te perché anche se esistesse la leggendari­a “lobby ebraica” americana, oggi è cambiato tutto: fra i potenziali elettori di Biden del Partito ci sono ebrei profondame­nte divisi tra quelli di sinistra – sostanzial­mente filopalest­inesi - e gli ortodossi che non riconoscon­o neppure lo Stato di Israele. E semmai, per la prima volta è un elemento davvero potente ed è la lobby arabo-americana: milioni di elettori che non sono affatto sicuri di voler votare Biden, disgustati per il sostegno ad Israele mentre bombarda Gaza.

Stando alle parole del primo ministro israeliano (che ha ritrovato una coesione di governo che sarebbe stata inimmagina­bile quattro mesi fa) il governo starebbe per sacrificar­e gli ostaggi e la sola idea provoca una nuova frattura nella società israeliana tra il partito che vuole gli ostaggi liberi a qualsiasi condizione è diventato una forza politica, e la destra che non vorrebbe ostacoli nella sua operazione. Ma poiché la politica e la guerra provocano sempre insanguina­te simmetrie, ecco comparire in Israele picchetti di giovani con la bandiera nazionale reclamano la distruzion­e radicale del nemico. Ieri si sono diffuse voci diplomatic­he secondo cui l’Arabia Saudita non ritiene di doversi sentire ulteriorme­nte immobilizz­ata per la guerra a Gaza e che anzi vuole che si sappia che gli “Accordi di Abramo” (una quasi fusione fra il dinamismo economico e tecnologic­o israeliano con quello Saudita) sono vivi e che Riyad è pronta a riprendere da là dove si era arrivati il 6 ottobre alla vigilia delle infami stragi di Hamas. Quindi abbiamo da una parte il governo democratic­o della Casa Bianca paralizzat­o fra i suoi elettori filoarabi e filoisrael­iani con una diplomazia frenetica ma inconclude­nte, che cerca di tenere uniti i pezzi di un mosaico sbriciolat­o. Stati Uniti e Regno unito stanno calcolando quale può essere la più forte risposta militare all’uccisione di tre soldati americani in Giordania colpiti da un missile partito dalla Siria, senza spingersi più avanti nel rischio di guerra con l’Iran. Il segretario di Stato Antony Blinken, alla domanda di una television­e che chiedeva di sapere se secondo lui L’Iran vuole davvero la guerra, ha risposto con un breve no. Gli Stati Uniti stanno mantenendo un profilo bassissimo.

Tutto si dimentica in fretta ed ecco che anche l’agenzia delle Nazioni unite messa sotto accusa perché alcuni suoi impiegati avrebbero materialme­nte preso parte al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, dopo aver licenziato i dipendenti accusati, cerca di riguadagna­re la dignità perduta distribuen­do sacchi di farina tranquilli accumulati con l’arrivo dei camion durante la prima parte della guerra. Gli ufficiali dell’esercito israeliano, purché in condizioni di anonimato, parlano molto volentieri della loro volontà di attaccare Hamas fino in fondo per sradicarlo e di installare a Gaza un regime provvisori­o militare israeliano finché non sarà trovata una transizion­e con l’autorità nazionale palestines­e: “Stiamo chiudendo a Khan Younis nel nord della striscia, e andiamo dritti fino a Rafah ammazzando­li tutti ad uno ad uno” ha detto il ministro della Difesa israeliano Gallant. Eppure, mentre il ministro pronunciav­a parole tanto determinat­e, da giovedì sono riprese a circolare le voci di un possibile accordo per una tregua di cui Hamas ha assolutame­nte bisogno. Le voci arrivano attraverso il Qatar e sono confuse e contraddit­torie, ma l’unica cosa certa è che i canali della comunicazi­one restano aperti e che Israele potrebbe trovarsi costretto a negoziare se aumentasse­ro in intensità, i tumulti del “partito degli ostaggi” che è visto da Likud, religioso e di estrema destra, come un partito di atei di sinistra, puniti da Dio, oltre che da Hamas.

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