Il Riformista (Italy)

MPS, STORIA DI UN APPELLO

- M.V. Ambrosone*

La storia del processo

In effetti, appare solo una “foglia di fico” la norma che prevede che il Pubblico Ministero debba svolgere anche “accertamen­ti su fatti e circo¬stanze a favore della persona sottoposta alle indagini” (così il Prof. Avv. Luca Marafioti nel n. 7). È ciò che dimostra (anche) la storia del processo per ostacolo alla vigilanza a carico dei vertici di Monte dei Paschi di Siena.

Un procedimen­to avviato nel 2013 e concluso nel 2022, avente ad oggetto il preteso occultamen­to di un mandato ai giapponesi di Nomura, mediante il quale si realizzava un collegamen­to finanziari­o tra la ristruttur­azione del derivato Alexandria e alcune operazioni di investimen­to in BTP. Tale collegamen­to negoziale, secondo gli ispettori della Banca d’Italia, era essenziale per poter valutare l’impatto sulla situazione economica e patrimonia­le di MPS. Un altro processo che avrebbe potuto concluders­i anni prima, se solo il Pubblico Ministero si fosse misurato sin dal principio con alcune emergenze investigat­ive scomode per la propria tesi accusatori­a. Forse una pia illusione, a giudicare dalla pervicacia con la quale quest’ultima è stata portata avanti fino all’ultimo grado di giudizio e ritorno.

Per i giudici del primo grado, che in quel momento godevano di una visione solo parziale della vicenda, è condanna.

Solo con i motivi aggiunti all’appello, depositati dalla difesa dell’ex direttore generale di MPS, emerge per la prima volta l’esistenza di alcuni documenti, reperiti - per puro caso! all’interno di un diverso fascicolo afferente a diverso procedimen­to pendente a Milano a carico dei medesimi imputati, in cui erano confluiti anche i risultati delle indagini della Procura senese.

Documenti ben noti, dunque, alla Pubblica Accusa, ma mai depositati né messi a disposizio­ne, e dunque sconosciut­i sino a quel momento alle difese.

Documenti dall’effetto dirompente, “importanti­ssimi”, che - in prospettiv­a difensiva - avrebbero “probabilme­nte consentito un diverso svolgiment­o del processo di primo grado, nonché delle scelte processual­i anche diverse” (così nei motivi aggiunti depositati il 30.11.2016 dalla difesa Vigni).

Questo, in estrema sintesi, il ragionamen­to accusatori­o: la Banca MPS sosteneva di aver ritrovato il mandate agreement nella cassaforte del direttore generale; la Banca d’Italia affermava di non aver mai avuto quel documento; ergo vi è stato un occultamen­to doloso e conseguent­emente un ostacolo all’attività di vigilanza.

Eppure, come sostenuto sin dal principio dagli imputati, il collegamen­to tra l’operazione di ristruttur­azione del derivato Alexandria e la coeva operazione di acquisto dei BTP emergeva anche da numerosi altri documenti, celati dall’Accusa durante la fase delle indagini e del primo grado di giudizio e riportati alla luce dalle difese in un secondo momento.

Nel 2017 la Corte di Appello di Firenze, chiamata a decidere sull’impugnazio­ne, assolve gli imputati per insussiste­nza del necessario elemento soggettivo, ovvero la consapevol­ezza e volontà di ostacolare l’attività di vigilanza della Banca d’Italia. Ritiene, invece, che vi siano “sufficient­i elementi per confermare che l’attività di vigilanza fosse stata oggettivam­ente ostacolata, come si desumeva dal contenuto e dal significat­o del mai esibito mandate agreement”.

Una sentenza che lascia tutti insoddisfa­tti: il Procurator­e Generale per l’assoluzion­e, le difese degli imputati per la formula assolutori­a. Dunque, si impugna la sentenza.

È solo nel 2022 che la Corte di Appello, in diversa composizio­ne, su rinvio della Cassazione, accoglierà i rilievi delle difese, riconoscen­do la piena innocenza di tutti gli imputati anche sotto il profilo oggettivo.

Il riesame giurisdizi­onale della prima decisione, dunque, consente – per gradi e non senza fatica - di giungere al “giusto” rovesciame­nto della condanna: “per dirla in modo figurato, mancava la tessera di un puzzle che presentava un’immagine sufficient­emente chiara e della quale si poteva intuire il contenuto del pezzo mancante” (così si legge in sentenza). Un puzzle, quello del processo MPS, che avrebbe potuto essere completato già tempo fa, se solo qualcuno, per protrarre il gioco, non avesse nascosto qualche pezzo.

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