Il mondo all’incontrario
Se un tema dispone di profili numerici, non c’è artificio logico che regga, perché i numeri sono in grado di confutare qualunque narrazione farlocca.
Le impugnazioni sono uno di quei casi. Il tasso di riforma delle sentenze di primo grado – lo spiega con chiarezza l’editoriale di oggi del nostro Direttore – riesce da solo a rendere ragione di come la compressione del diritto di impugnazione finalizzata ad arginare l’enorme arretrato giacente presso le Corti d’Appello non risponda ad alcun argomento assennato.
E in questa stessa prospettiva, un ulteriore dato, speculare a quello del tasso di riforma, stimola una riflessione: è il dato relativo al numero dei casi nei quali si propone l’appello. L’esame comparato su base europea del tasso di impugnazione restituisce un quadro assai problematico. Basti pensare, per fare solo un esempio, che, secondo i dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ), nel 2016 si sono contati in Italia quasi 125.000 appelli, a fronte dei 47.000 circa della Francia e dei 60.000 della Spagna; per non dire dei 14.000 di Inghilterra e Galles.
Esiste, dunque, una molla che spinge l’utente della giustizia italiana a ricorrere al giudice di seconda istanza in un numero di casi straordinariamente superiore che nel resto di Europa.
Quale ne sia la ragione non è facile dire, ma qualche argomento può trarsi persino dal fatto che questo trend al rialzo è distonico rispetto alla stessa idea fondativa del processo accusatorio. Lo strumento aveva infatti nelle corde (tra l’altro) la propensione a una naturale riduzione delle impugnazioni, come contropartita di un irrobustimento delle garanzie c.d. orizzontali nel primo grado di giudizio. In altri termini, il miglioramento dell’efficacia decisoria del primo grado che il nuovo processo comporta consentiva fondatamente di auspicare un minore accesso alla fase di impugnazione.
Ciò non è però accaduto e la sinergia tra il numero delle impugnazioni e l’elevato tasso di riforma proietta rapidamente il ragionamento sul tema della qualità della giurisdizione.
Per provare a ripianare il soffocante arretrato di cui si dice, insomma, oltre che rimpolpare gli organici per ridurre un carico di lavoro pro capite obiettivamente ingestibile, si potrebbe intervenire su quelle garanzie
orizzontali, migliorando l’efficacia dell’udienza preliminare e del processo di primo
grado – la prima, a quanto sin qui pare, per nulla rianimata dalla riforma Cartabia e il secondo anch’esso impantanato in endemici ritardi – in modo che almeno una parte delle riforme oggi dispensate dalle Corti d’Appello arrivi, per così dire, anticipatamente e in autotutela. (Ci si potrebbe persino spingere a mettere mano all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, ma questa è una storia che merita una riflessione a sé). E invece, in quel mondo all’incontrario che è spesso la giustizia penale italiana, si preferiscono altre vie, come quella, ad esempio, di rendere impossibile l’impugnazione per una fetta nemmeno secondaria degli utenti della
giustizia, attraverso le trappole del mandato specifico ad impugnare e dell’elezione di domicilio da rilasciarsi al difensore dopo la sentenza di primo grado, ponendo così sulle spalle dell’imputato – e a prescindere dalla correttezza del provvedimento di prime cure – tutto il peso del malfunzionamento del sistema a cui egli non ha dato causa, impedendogli persino di tentare la rettifica di sentenze che in un numero elevato di casi si rivelano sbagliate.