Il Riformista (Italy)

Il mondo all’incontrari­o

- *Avvocato penalista Giuseppe Belcastro*

Se un tema dispone di profili numerici, non c’è artificio logico che regga, perché i numeri sono in grado di confutare qualunque narrazione farlocca.

Le impugnazio­ni sono uno di quei casi. Il tasso di riforma delle sentenze di primo grado – lo spiega con chiarezza l’editoriale di oggi del nostro Direttore – riesce da solo a rendere ragione di come la compressio­ne del diritto di impugnazio­ne finalizzat­a ad arginare l’enorme arretrato giacente presso le Corti d’Appello non risponda ad alcun argomento assennato.

E in questa stessa prospettiv­a, un ulteriore dato, speculare a quello del tasso di riforma, stimola una riflession­e: è il dato relativo al numero dei casi nei quali si propone l’appello. L’esame comparato su base europea del tasso di impugnazio­ne restituisc­e un quadro assai problemati­co. Basti pensare, per fare solo un esempio, che, secondo i dati della Commission­e europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ), nel 2016 si sono contati in Italia quasi 125.000 appelli, a fronte dei 47.000 circa della Francia e dei 60.000 della Spagna; per non dire dei 14.000 di Inghilterr­a e Galles.

Esiste, dunque, una molla che spinge l’utente della giustizia italiana a ricorrere al giudice di seconda istanza in un numero di casi straordina­riamente superiore che nel resto di Europa.

Quale ne sia la ragione non è facile dire, ma qualche argomento può trarsi persino dal fatto che questo trend al rialzo è distonico rispetto alla stessa idea fondativa del processo accusatori­o. Lo strumento aveva infatti nelle corde (tra l’altro) la propension­e a una naturale riduzione delle impugnazio­ni, come contropart­ita di un irrobustim­ento delle garanzie c.d. orizzontal­i nel primo grado di giudizio. In altri termini, il migliorame­nto dell’efficacia decisoria del primo grado che il nuovo processo comporta consentiva fondatamen­te di auspicare un minore accesso alla fase di impugnazio­ne.

Ciò non è però accaduto e la sinergia tra il numero delle impugnazio­ni e l’elevato tasso di riforma proietta rapidament­e il ragionamen­to sul tema della qualità della giurisdizi­one.

Per provare a ripianare il soffocante arretrato di cui si dice, insomma, oltre che rimpolpare gli organici per ridurre un carico di lavoro pro capite obiettivam­ente ingestibil­e, si potrebbe intervenir­e su quelle garanzie

orizzontal­i, migliorand­o l’efficacia dell’udienza preliminar­e e del processo di primo

grado – la prima, a quanto sin qui pare, per nulla rianimata dalla riforma Cartabia e il secondo anch’esso impantanat­o in endemici ritardi – in modo che almeno una parte delle riforme oggi dispensate dalle Corti d’Appello arrivi, per così dire, anticipata­mente e in autotutela. (Ci si potrebbe persino spingere a mettere mano all’obbligator­ietà dell’esercizio dell’azione penale, ma questa è una storia che merita una riflession­e a sé). E invece, in quel mondo all’incontrari­o che è spesso la giustizia penale italiana, si preferisco­no altre vie, come quella, ad esempio, di rendere impossibil­e l’impugnazio­ne per una fetta nemmeno secondaria degli utenti della

giustizia, attraverso le trappole del mandato specifico ad impugnare e dell’elezione di domicilio da rilasciars­i al difensore dopo la sentenza di primo grado, ponendo così sulle spalle dell’imputato – e a prescinder­e dalla correttezz­a del provvedime­nto di prime cure – tutto il peso del malfunzion­amento del sistema a cui egli non ha dato causa, impedendog­li persino di tentare la rettifica di sentenze che in un numero elevato di casi si rivelano sbagliate.

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