TRA SCHIAVETTONI E GOGNA, ENZO CARRA RICORDATO IN SENATO
Enzo Carra, il giornalista – e portavoce della Dc – che inventò la comunicazione politica moderna è scomparso da un anno. Sempre gioviale e al contempo iperattivo, aveva per il suo lavoro e per il dovere della corretta informazione un rispetto rigoroso. Era diventato, suo malgrado, l’immagine iconica di una delle pagine più buie dell’inchiesta Mani pulite. Avvenne nel 1993 quando a valle di un interrogatorio venne arrestato – ingiustamente, non rubò mai niente ma, si disse, «non poteva non sapere» – e infine trascinato in tribunale con gli schiavettoni ai polsi a favore di fotografi e telecamere, per esibire agli occhi degli italiani il trofeo di caccia del Pool. Uno degli abissi a cui si è spinta non l’Ungheria di Orbàn ma l’Italia delle Procure negli anni in cui il populismo mediatico-giudiziario iniziò a soffiare forte. Oggi sarà ricordato con una conferenza presso la Sala Capitolare del Senato, in piazza della Minerva alle 15.30: con il figlio Giorgio ci saranno il giornalista Paolo Franchi e Marco Damilano, l’onorevole Giuseppe
Gargani e Enzo Scotti. Lo ricorderà l’ex magistrato Gherardo Colombo, con cui Carra ha pubblicato il libro «L’Ultima Repubblica», edito da Eurilink. Al Riformista alcuni mesi prima di morire aveva affidato il ricordo amaro della stagione giudiziaria.
Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?
«Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra».
Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.
«E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi».
Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.
«Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: ‘Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere’».
Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?
«Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere».
Aveva tutta l’aria di una ammissione estorta…
«Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui».
Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavettoni”?
«Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi».
Un trofeo di caccia.
«Sì. Volevano esibirmi davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido».
Quell’immagine suscitò per fortuna anche una risposta, il giusto sdegno.
«E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto».
Li ha perdonati?
«Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del Pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine».