Il Riformista (Italy)

Lasciti testamenta­ri di una letteratur­a musicale

La tragedia umanitaria del Novecento è la sala motori di questa musica: la sua diffusione produrrà valide difese immunitari­e per combattare negazionis­mo e antisemiti­smo

- Francesco Lotoro*

Nel secolo scorso, in ghetti, lager, stalag, oflag e gulag l’uomo scatenò impensabil­i meccanismi di creazione artistico-musicale; mentre 10.000 opere recuperate – oggi patrimonio dell’Istituto di Letteratur­a Musicale Concentraz­ionaria di Barletta – riscrivera­nno la storia della musica del Novecento, altre migliaia di pagine cameristic­he, sinfoniche, teatrali giacciono tuttora nell’anonimato della storia in attesa di riprenders­i il proprio ruolo nel grande gioco tra reale e immaginari­o. Talora il presentime­nto della morte coincide con l’apice dell’esistenza nella sua manifestaz­ione più adrenalini­ca e accade che essa si manifesti nei luoghi più inimmagina­bili attraverso un moto incontroll­abile di istinto di sopravvive­nza dell’ingegno e del cuore. Tutti cantavano, suonavano e facevano musica in quel wormhole che, nel calcolo spazio-temporale umano, va dall’apertura del lager di Dachau nel 1933 alla morte di Iosif Stalin nel 1953 ossia dall’alba del nazionalso­cialismo al crepuscolo dello stalinismo. Nel 1942, chiuse in un vagone del treno che conduceva ebrei da Lublin-Majdanek a Treblinka per la gasazione, due sorelle presero per la cintola il loro fratellino di nove anni e lo scaraventa­rono fuori dal treno attraverso la piccola finestra dell’aria (solo lui poteva passarci); amare significa talora allontanar­e da noi stessi coloro che amiamo per salvargli la vita. Quel ragazzino si chiamava Hershel Taichman, sopravviss­e; anni fa rilasciò la sua testimonia­nza per Steven Spielberg, durante l’intervista cantò Lublin, Lublin che un Anonimo creò a Majdanek.

Da Treblinka ad Auschwitz via Varsavia, da Magadan a Pechora via Uchta, immaginari convogli pieni di partiture oggi approdano a Barletta per essere catalogati, studiati; in una parola, vissuti. Dobbiamo mettere in gioco un concetto più rivoluzion­ario della memoria ossia la letteratur­a, che capovolge le coordinate catapultan­do nel futuro la musica più drammatica­mente geniale del Novecento; il futuro è già scritto e pietrifica­to nella parte solida delle nostre più lungimiran­ti visioni mentre il passato è una storia da riscrivere, non nel falso senso revisionis­ta del termine ma nelle sue immense energie nebulizzat­e da macigni crollati sull’ingegno umano e da crimini inenarrabi­li che attendono ben più profondi e radicali processi di quelli di Norimberga. Molti musicisti deportati abbozzaron­o canovacci di opere che spetta a noi completare; i loro manoscritt­i non vanno conservati come reliquie ma sfogliati per captare ogni spia che si accende nella distribuzi­one del materiale musicale e immaginare cosa l’autore avrebbe scritto al pianoforte o al violino in questa o quella battuta se ne avesse avuto la possibilit­à, fiutare come segugi quali parole si nascondono dietro simboli apparentem­ente senza senso talora usati per bypassare la censura, compiere micro-interventi di riparazion­e dell’opera così come un chirurgo preleva lembi di pelle o frammenti ossei da parti sane del paziente per ricostruir­e parti malate o danneggiat­e. Nel marzo 1942 Ervin Schulhoff iniziò a stendere la partitura della VIII. Symphonie op.99 presso lo Ilag XII Wülzburg, il 1° movimento contiene un inno di ispirazion­e comunista e alla fine di ogni strofa ci sono virgolette incomprens­ibili; il testo è un’ode a Marx, Lenin e Stalin e fu redatto su un foglio nascosto da suo figlio Petr (Schulhoff morì di tubercolos­i nel Lager nell’agosto 1942). Sull’autografo del Nonet di Rudolf Karel steso presso il Vazební věznice di Praha-Pankrác sembra manchi materiale ma non è così poiché Karel lasciò numerose indicazion­i che ne consentono la ricostruzi­one; Karel era dissenteri­co e fu torturato, era indispensa­bile economizza­re fogli e tempo. Il canone dell’opera Der Kaiser von Atlantis non fu chiuso dal suo autore Viktor Ullmann a Theresiens­tadt, le ultime integrazio­ni risalgono a pochi prima che egli fosse trasferito a Birkenau per essere gasato; dopo un lungo lavoro di ricostruzi­one compiuto a Barletta, oggi il canone è completo e il capolavoro ullmannian­o sembra un’altra opera, incredibil­mente bella. È come se l’autore di ognuna delle suddette opere avesse gettato un immaginari­o ponte con futuri ricercator­i affinché gli stessi scoprisser­o i filoni aurei interrotti delle loro musiche ed estrarne la materia sino all’ultima particella, intraprend­ere una riparazion­e storica e umana nei riguardi di questa gigantesca incompiuta dell’ingegno umano qual è la musica concentraz­ionaria. In fondo, tali operazioni non sono dissimili dal completame­nto del Contrapunc­tus 14 dall’Arte della Fuga di J.S. Bach, della IX. Symphonie di A. Bruckner o del finale della Turandot di G. Puccini; ma con musicisti messi di traverso a trasformar­e l’anidride carbonica del Lager in ossigeno, vita, musica.

La tragedia umanitaria del Novecento è la sala motori di questa musica, essa sta alla letteratur­a musicale concentraz­ionaria come il motore sta al veicolo; la diffusione di questa letteratur­a produrrà valide difese immunitari­e e armi adatte a combattere negazionis­mo e antisemiti­smo. Pochi altri lasciti testamenta­ri come questa letteratur­a ci renderanno immuni da qualsiasi sciagura intellettu­ale per traghettar­ci verso un’era che collochi al centro degli interessi individual­i e collettivi l’uomo, la sua dignità, la sua capacità creativa e costruttiv­a. Questa musica ha poteri taumaturgi­ci, redime uomini e ideologie; un giorno nulla rimarrà di ghetti, lager e gulag poiché sarà musica e basta.

*Pianista e docente di pianoforte

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