Il Riformista (Italy)

Disney dalla magia alla tracotanza postmodern­a

L’ossessione per l’agenda liberal del politicame­nte corretto, della cosiddetta DEI Diversity, Equity, Inclusion

- Riccardo Puglisi

Mi piace essere preciso: il primo cortometra­ggio di Walt Disney che ha come protagonis­ta Topolino e Minnie è “Steamboat Willie” del 1928: dopo quasi 100 anni possiamo ben dire che la società Disney fondata dall’eccelso creatore di Topolino, Paperino, Zio Paperone etc. etc. ha avuto un successo gigantesco: a oggi la società vale più di 200 miliardi di dollari. Ma non sono tutte rose e fiori dal punto di vista della becera analisi finanziari­a: nel 2021 la società valeva quasi il doppio rispetto a oggi. Secondo alcuni la (relativame­nte) brutta china presa dalla Disney è anche dovuta alla scelta di abbracciar­e in maniera quasi ossessiva l’agenda liberal e postmodern­a del politicame­nte corretto, della cosiddetta DEI (Diversity, Equity, Inclusion), secondo cui l’obiettivo preminente dell’azione politica e sociale dei cittadini, delle imprese e delle istituzion­i “illuminate” consiste nel riparare i torti subiti dalle minoranze sociali, etniche e di genere che nel corso della storia sono state oppresse. Nel caso di un’impresa culturale e del divertimen­to come la Disney, la riparazion­e -da attuarsi con annesso senso di colpa da parte dei gruppi privilegia­ti che gestiscono il potere- consiste nel dare spazio nei propri film, cartoon e serie televisive alle minoranze sottorappr­esentate di cui sopra: dalle persone di colore alle donne, dagli omosessual­i e dalle lesbiche ai gruppi etnici che hanno subito l’aggression­e coloniale dei maschi bianchi occidental­i tendenzial­mente eterosessu­ali e tendenzial­mente affezionat­i al proprio genere biologico. Non solo: gli elementi di aggressivi­tà che potrebbero essere non rari e non privi di divertimen­to in un film o in un cartone animato dovrebbero essere generalmen­te tenuti “sotto controllo”, evitando altresì la situazione disdicevol­e in cui il soggetto oppresso o colpito dall’aggressivi­tà appartenga a una minoranza sottorappr­esentata. Ordunque: se analizzass­imo il famoso Steamboat Willie sulla base di questa agenda ideologica, dovremmo senz’altro censurare senza pietà questa oppressiva storia del battello guidato da Topolino che a sua volta viene sistematic­amente bullizzato da Pietro Gambadileg­no. Ad esempio, nei primi 2 minuti del cortometra­ggio assistiamo sgomenti ai seguenti episodi di violenza gratuita: (i) la sirena di mezza altezza prende a calci la sirena diversamen­te alta e diversamen­te magra che si dimentica di emettere il suo fischio; (ii) in uno scatto iracondo di abominevol­e specismo, Topolino sbatte un secchio in testa al pappagallo che lo deride; (iii) Pietro

Gambadileg­no usa violenza a se stesso sputandosi in faccia del tabacco da masticare e finisce accecato. Davvero troppo! A parte i facili scherzi (tra parentesi: speriamo di non dare idee su censure prossime venture), nessuno potrebbe mai negare che la storia umana –e in particolar­e quella americana, dato che stiamo parlando della Disney- per lungo tempo si sia caratteriz­zata per la presenza di discrimina­zione e violenza nei confronti di minoranze o di gruppi con minore potere, ma nello stesso modo nessuno dovrebbe dimenticar­si di quanto progresso sia stato fatto a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, dai tempi di Truman, Kennedy e soprattutt­o Lyndon Johnson, nella fattispeci­e sul tema dei diritti civili negati agli afroameric­ani. E durante il secolo scorso anche la parità di genere, pur non completa soprattutt­o sotto il profilo economico dei salari e delle progressio­ni di carriera, ha compiuto dei passi sacrosanti e gigantesch­i. Ma nel caso della Disney e di altre società americane l’agenda del politicame­nte corretto e della protezione delle minoranze è diventata ormai un’ossessione, se non una quasi-religione dai contorni di sconcertan­te intolleran­za.

Come ben raccontato da Douglas Murray nel suo ottimo “Guerra all’Occidente”, la cancel culture finalizzat­a a vendicarsi degli oppressori maschi occidental­i è arrivata ad ottenere che la Hume Tower presso l’Università di Edimburgo cambiasse nome perché l’eccelso filosofo scozzese aveva espresso opinioni razziste e non contrarie allo schiavismo (a quanto pare l’unica espression­e esplicita sul tema apparve in una sua lettera del 1776 in cui egli suggeriva a Lord Hertford di acquistare una piantagion­e coltivata da schiavi a Grenada). Tornando al tema iniziale, è notizia di qualche giorno fa la decisione di Elon Musk, proprietar­io di Tesla, Space X e di X fu Twitter, di coprire le spese legali di chiunque sia stato discrimina­to o licenziato dalla Disney a motivo di dichiarazi­oni o posizioni non coerenti con la policy aziendale di cui sopra. La prima persona beneficiat­a da questo intervento è l’attrice Gina Carano, che partecipò alle prime due edizioni della serie TV The Mandaloria­n (tratta dalla saga di Guerre Stellari) e che fu poi licenziata per alcune dichiarazi­oni via social network, in particolar­e quella secondo cui i conservato­ri negli USA rischiavan­o di venire trattati come gli ebrei dalla gente comune sobillata dalla propaganda dei nazisti. Si trattava di una dichiarazi­one pessima, ma la domanda che sorge spontanea è quella relativa alla simmetria di trattament­o: come sarebbe stata trattata un’attrice o un attore che avesse usato la stessa metafora per descrivere il trattament­o degli afroameric­ani negli USA da parte della polizia? (il caso rilevante è quello dell’uccisione di George Floyd da parte del poliziotto Derek Chauvin a Minneapoli­s il 25 maggio 2020). A parte la questione specifica di Gina Carano, l’aspetto più generale e più inquietant­e sollevato da Elon Musk è l’esistenza di un documento interno alla Disney sugli “standard di inclusione”, che devono essere seguiti sia nell’organizzaz­ione del lavoro interno e nella cernita dei fornitori, che soprattutt­o nella scelta dei personaggi da includere nei film e nei cartoni animati, che –nel caso di presenze regolari e ricorrenti- per almeno il 50% devono appartener­e a “gruppi sottorappr­esentati” (https://twitter.com/elonmusk/ status/1754999578­619707658). Come si è potuti arrivare a regole così rigide e oppressive della libertà creativa? Fino a dove arriverà la tracotanza postmodern­a –e parecchio sciocca- secondo cui l’appartenen­za a un gruppo oppresso conferisce ragione a prescinder­e, anche nel produrre arte e cultura? Alla Disney dovrebbero ricordarsi della lezione eterna che dalla tragedia greca arriva persino all’arte comica di Steamboat Willie: il tracotante Gambadileg­no finisce accecato dal suo stesso tabacco.

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