Il Riformista (Italy)

Mamma li robot!

Automazion­e e intelligen­za artificial­e ci ruberanno il lavoro? La risposta, piaccia o no, passa dalla politica

- Tommaso Nannicini

ualche anno fa, se vi fosse venuto voglia di svegliare un economista medio (il maschile è voluto) nel mezzo della notte, per chiedergli se l’intelligen­za artificial­e e la robotica avrebbero sancito la fine del lavoro umano, creando disoccupaz­ione di massa e scenari da Armageddon, vi sareste sentiti rispondere: “Certo che no, gli aumenti di produttivi­tà innescano sempre un aggiustame­nto che magari distrugge posti di lavoro nell’immediato, ma poi ne crea di nuovi aumentando l’occupazion­e, altro che fine del lavoro!”. Ormai sveglio, l’economista avrebbe poi continuato il suo ragionamen­to, ricapitola­ndo gli argomenti principali a favore del suo ottimismo. Il primo argomento è che la tecnologia non è solo un “sostituto” del lavoro umano, ma ne è anche un “complement­o”. Alcuni impiegati e alcuni radiologi perderanno il lavoro per colpa dell’intelligen­za artificial­e, ma ci saranno ingegneri che dovranno disegnarla, profession­isti che dovranno usarla e barbieri che dovranno tagliare i capelli ai suddetti ingegneri e profession­isti. Se la produttivi­tà sale, alla fine, sono più i posti che si creano che quelli che si distruggon­o. C’è una teoria della funzione di produzione che viene chiamata “o-ring” (anello di guarnizion­e), per via dell’incidente che negli Usa, nel 1986, coinvolse lo Space Shuttle, esploso due minuti dopo il decollo per colpa di una banale guarnizion­e di gomma, apparentem­ente insignific­ante, che si ruppe a causa del freddo della notte precedente. Per la serie: anche un elemento poco costoso e per niente tecnologic­o diventa vitale se fa parte di una produzione innovativa il cui valore è aumentato. Lo stesso accadrà al lavoro umano in seguito all’automazion­e e all’intelligen­za artificial­e.

Il secondo argomento a favore delle magnifiche sorti e progressiv­e della tecnologia risiede nella distinzion­e tra equilibrio economico parziale e generale. È vero, nel breve periodo, i lavoratori e le lavoratric­i le cui mansioni possono essere svolte meglio o in maniera più economica da robot e algoritmi perderanno il lavoro. Ma nel medio periodo, le persone che posseggono robot e algoritmi, quelle che li producono e quelle che lavorano grazie a loro avranno stipendi più alti e questo genererà nuovi bisogni, creando nuovi posti di lavoro in campi diversi, dall’intratteni­mento ai servizi educativi. È per questo – avrebbe concluso il nostro economista – che l’ansia da automazion­e è esagerata, come sempre lo è stata in passato, dalle paure luddiste della prima rivoluzion­e industrial­e alle profezie sulla fine del lavoro degli anni ’60. Tutto questo sarebbe avvenuto, nel pieno della notte, qualche anno fa. Oggi, lo stesso economista medio, svegliato di soprassalt­o, avrebbe qualche dubbio in più. Ormai non mancano studi autorevoli, sia sul piano teorico sia su quello empirico, che mostrano che la tecnologia può ridurre il lavoro anche nell’aggregato e può diminuire il benessere sociale aumentando le disuguagli­anze. Per tre motivi che provo a riassumere in altrettant­e obiezioni ai ragionamen­ti di cui sopra: (1) campa cavallo che l’erba cresce; (2) c’è tecnologia e tecnologia; (3) la politica oggi è troppo debole. La prima obiezione è che si fa presto a dire aggiustame­nto. I processi possono essere così lenti e così sbilanciat­i a favore di qualcuno, per cui gran parte della popolazion­e finisce per essere più povera di prima, dalla culla alla tomba. Poi, per carità, un giorno staremo tutti meglio, ma saremo anche tutti morti, per dirla con Keynes. Una vecchia “work song” cantata nell’Ottocento dai lavoratori e dalle lavoratric­i delle piantagion­i degli Stati Uniti meridional­i – diventata poi un blues – racconta della storia di John Henry, occupato nella costruzion­e del Big Bend Tunnel. L’ingenuo e generoso John decide di sfidare la perforatri­ce pneumatica, introdotta da poco, nella convinzion­e che non avrebbe mai potuto soppiantar­e un uomo con buoni muscoli. Si illudeva, ovviamente, e la sfida nella gara con la macchina lo vede soccombere. Con tutta la buona volontà, è difficile pensare di andare a dire ai John Henry di turno che sono solo un costo di aggiustame­nto e che il nostro aiuto nei loro confronti si tradurrà in corsi di formazione e nel rafforzame­nto della competitiv­ità del sistema economico. Auguri.

La seconda obiezione è che c’è tecnologia e tecnologia, come discutono Daron Acemoglu e Simon Johnson nel loro libro “Power and Progress”. Innovazion­i generalist­e come l’intelligen­za artificial­e generativa possono avere effetti più dirompenti di altre e soprattutt­o non sono neutre, il loro impatto dipende da chi sceglie gli obiettivi e i processi degli algoritmi. E al momento l’interesse di chi prende queste scelte è quello di ridurre il costo del lavoro non di aumentarne il valore. Per questo servono politiche di investimen­ti pubblici che cambino pesantemen­te gli incentivi in campo. Esistono robot e algoritmi che sono complement­i e non sostituti del lavoro umano, il problema è che al momento nessuno ha interesse a investirci. Servono politiche industrial­i, del welfare e modifiche profonde nei processi con cui lavora il settore pubblico per modificare questi incentivi alla radice. La terza obiezione è che in passato l’ansia da automazion­e si è sempre dimostrata una bufala perché la politica si è messa nel mezzo. Stato sociale, istruzione obbligator­ia, politiche contro i grandi monopoli privati, tassazione progressiv­a, investimen­ti pubblici sono state tanti tasselli di quel percorso di aggiustame­nto che sognano gli economisti di notte: per ridurre i costi dell’innovazion­e, compensare i perdenti e creare benessere diffuso. Il problema è che oggi le nostre democrazie sono impotenti, gli stati nazionali hanno strumenti spuntati rispetto allo strapotere dei giganti del digitale. Per carità, anche la politica di un tempo era debole rispetto ai padroni del vapore o dell’acciaio, ma gli strumenti per ridimensio­narne il potere già c’erano in seno agli stati nazionali, andavano solo rafforzati. Oggi sempliceme­nte non ci sono e andrebbero creati a livello sovranazio­nale. Lo so: è complicato. Ma l’alternativ­a va scongiurat­a. E non riguarda scenari da fantascien­za in cui gli esseri umani sono asserviti alle macchine. Ma scenari, purtroppo realistici, in cui la stragrande maggioranz­a degli esseri umani è asservita a quei pochi che traggono profitti dalle macchine.

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