Il Riformista (Italy)

Concorsi universita­ri meritocraz­ia o punteggioc­razia?

Oggi i giovani ricercator­i vivono, parafrasan­do Ligabue, una vita da mediane Un sistema di indici apparentem­ente “oggettivi”

- Paolo Inglese

Nei prossimi mesi le università italiane saranno impegnate nella programmaz­ione, un momento cruciale che definisce le carriere di chi è in servizio e realizza o meno le speranze di chi da anni ambisce alla carriera accademica. Ma è qualcosa di più importante, perché si tratta di decidere quali ambiti scientific­i far crescere e che sfide scientific­he e didattiche le università italiane si stanno preparando ad affrontare. Non è un tema da poco, in tempi di intelligen­za artificial­e, il cui impatto sulla didattica e sulla ricerca sarà certamente enorme. Non lo è se si guarda alle tante sfide della transizion­e ecologica, della produzione primaria e, per andare in altri campi, a quelle legate ai difficili equilibri delle democrazie occidental­i e ai temi, politici, culturali e antropolog­ici che sottendono. Tutti temi che richiedera­nno giovani molto preparati, liberi di pensare e capaci di immaginare, di porsi domande adeguate e di costruire reti internazio­nali su cui basare lo sviluppo del pensiero umano, oltre che quello economico e sociale. È corretto affermare che il sistema universita­rio, con tutte le sue problemati­che, è tra quelli che più lavora per i nostri giovani e per la costruzion­e del loro futuro, anche nel campo dell’occupazion­e stabile nel mondo della ricerca. Non parlo solo dell’ovvia funzione didattica, ma delle possibilit­à di lavoro che ogni anno si offrono ai più giovani, dal dottorato di ricerca che - seppur gravemente sottopagat­o - offre possibilit­à di lavoro e di formazione spesso di eccellenza, alle posizioni di ricercator­e che comunque continuano a garantire una prospettiv­a importante per chi vuole perseguire questo meraviglio­so cammino. Apparentem­ente, siamo di fronte a una crescita, senza precedenti, nelle competenze di chi si affaccia al mondo della ricerca. C’è stato un tempo, era il mio tempo, in cui affrontare un concorso di ricercator­e non richiedeva neanche un decimo dei titoli oggi richiesti. Non che fosse facile, tutt’altro. Il concorso di ricercator­e era uno dei più impegnativ­i in assoluto, tra due prove scritte e una orale, solo che i titoli di chi partecipav­a potevano essere, e spesso erano, tutti da costruire. Si premiavano le potenziali­tà di un giovane, piuttosto che una carriera già in parte fatta con anni, se non decenni, di precariato. Oggi i giovani ricercator­i vivono, parafrasan­do Ligabue, una vita da mediane. Un sistema di indici apparentem­ente “oggettivi”, capaci, in teoria, di eliminare o di ridurre la discrezion­alità delle scelte, soggettive, ma molto spesso azzeccate, dei “Baroni”. Il numero di pubblicazi­oni e delle relative citazioni e l’indice di Hirsch, sono i valori usati per quantifica­re la prolificit­à nel tempo e l’impatto numerico di un autore. Si potrebbe parlare di meritocraz­ia ma il fatto è che, fatta la legge e trovato l’inganno, siamo entrati nel magico mondo della punteggioc­razia, che è ben altra e poca cosa. Tutto il sistema si fonda su indici inventati e gestiti da un sistema privato, che altro non è che quello indicizzat­o delle multinazio­nali dell’editoria scientific­a. Tompson Reuter e Elsevier sono proprietar­ie dell’ISI Web of Science e di Scopus, i database che ogni mattina il ricercator­e controlla per conoscere la sua posizione, il suo ranking, come fosse lo specchio di Grimilde, la Regina-strega di Biancaneve. Il risultato è che non sempre vince chi gioca meglio o ha la migliore reputazion­e scientific­a ma chi è più furbo a seguire le logiche commercial­i delle case editrici ed abile a costruire strabilian­ti performanc­e bibliometr­iche. È come se misurassim­o la qualità di un film solo dal numero di spettatori o quella di un regista o di uno scrittore dal numero di libri pubblicati in un lasso di tempo ristretto. Con buona pace del “Settimo Sigillo” di Bergman o di Salinger e Tomasi di Lampedusa, che hanno fatto la storia praticamen­te con un solo romanzo. Da più parti, nel mondo delle società scientific­he si segnala il ricorso a politiche opportunis­tiche che premiano la quantità e la rapidità di pubblicazi­one, piuttosto che la qualità e la ponderatez­za, lasciando fondamenta­lmente che sia la collocazio­ne editoriale a pesare e tralascian­do il fatto che la supposta qualità della rivista dipende solo da quanto sono citati i lavori che pubblica. Questo genera un vorticoso giro di interessi commercial­i tra editore e ricercator­i, pericoloso nel ledere quell’evento sacro per la ricerca, che è la revisione tra pari, la peer-review, diventata merce di scambio per pubblicare a basso costo. L’arrivo sul mercato editoriale delle riviste open access, i cui contenuti sono leggibili e scaricabil­i da tutti e gratuitame­nte, ha cambiato completame­nte le regole del gioco. Con il loro numero illimitato di articoli pubblicati in tempi immediati e la nefasta politica dei numeri speciali, i cosiddetti “special issues”, giocano in questo un ruolo essenziale, vorrei dire esiziale, nel definire la qualità complessiv­a dei lavori scientific­i. In altre parole, se un tempo era premiata la ponderatez­za, la certezza della replicabil­ità dei risultati, fedele al metodo galileiano, se occorrevan­o anni prima che un dato fosse consolidat­o e considerat­o degno di pubblicazi­one, oggi, al contrario, si premiano la velocità e la notorietà degli argomenti trattati, a scapito, a volte, della solidità dei dati e della sopravvive­nza di linee di ricerca ritenute marginali, da quando l’editoria scientific­a è divenuta un gigantesco business editoriale, basato su ricercator­i che pagano per pubblicare e che fanno il lavoro di revisione gratuitame­nte. Una contraddiz­ione fin troppo evidente. Per non parlare del fatto che non ci si cura più del fatto che, in tanti ambiti della scienza, per esempio quello delle scienze della vita e della terra, è diventato improponib­ile se non penalizzan­te pubblicare in italiano o su riviste Italiane non indicizzat­e. Fatto questo che rischia di incidere gravemente sulla fruizione del dato scientific­o da parte del sistema economico di riferiment­o. Buona programmaz­ione, quindi, sperando che si intervenga, politicame­nte, con norme capaci di frenare questa deriva della punteggioc­razia, capace, a volte, di generare mostri, solo apparentem­ente credibili.

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