La magia del silenzio l’arte di Antonio Donghi
Il Museo di Palazzo Merulana a Roma regala al pubblico una mostra dedicata al grande pittore del Novecento Antonio Donghi, realizzata grazie a numerose opere arrivate dalla collezione Cerasi. “La magia del silenzio”, curata da Fabio Benzi, è una personale che rivisita la produzione di Donghi (1898-1963), romano doc, promosso dalla critica internazionale tra i grandi maestri del primo Novecento italiano. Un’occasione unica per riscoprire uno dei maggiori esponenti del “Realismo Magico”, formula coniata in Germania nel 1925 da Franz Ooh per le arti figurative e applicata successivamente alla letteratura da Massimo Bontempelli nel 1927. Antonio Donghi ha una storia particolare e il suo talento ha lasciato un segno indelebile nel mondo dell’arte. Figlio di Ersilia de Santis e Lorenzo, un commerciante di stoffe, trascorre un periodo in collegio dopo la separazione dei genitori. Si iscrive successivamente al Regio Istituto di Belle Arti di Roma, dove frequenta corsi di decorazione fino a conseguire la licenza nel 1916. Nel frattempo è scoppiata la Prima Guerra mondiale e Donghi si vede arruolato e spedito in Francia.
Al termine della guerra si immerge nello studio della pittura, visitando musei a Firenze e Venezia, con particolare interesse per il XVII e XVIII secolo. Il suo debutto artistico avviene nel 1922, lo stesso anno della Marcia su Roma, alla XV Esposizione della Società Amatori e Cultori di Belle Arti di Roma, con l’opera “Via del Lavatore”, un quadro che ritrae una stradina vicino a casa sua, nei pressi di Fontana di Trevi.
Nel 1923 presenta un “Nudo di donna” alla Seconda Biennale Romana, condividendo lo spazio espositivo con artisti come Carlo Socrate, Francesco Trombadori e Nino Bertoletti. Questo periodo segna l’inizio della sua carriera artistica. Le sue prime mostre personali si tengono nel 1924 alla Sala Stuard di Via Veneto e alla Casa d’Arte Bragaglia e contribuiscono a diffondere la sua arte su scala più ampia. Nel dicembre dello stesso anno partecipa all’importante Esposizione di venti artisti italiani presso la Galleria Pesaro di Milano, curata da Ugo Ojetti, insieme a grandi nomi come De Chirico, Trombadori e Casorati.
Antonio Donghi è figlio del suo tempo e abbraccia a pieno il “Realismo Magico” in voga in quel periodo e pur partendo da suggestioni impressioniste, crea un suo stile inconfondibile, legato profondamente alla fotografia e capace di rendere nelle proprie composizioni la suggestione del silenzio e del sogno. Cominciano così ad arrivare riconoscimenti internazionali, con mostre in Europa e negli Stati Uniti e negli anni ’30 si consolidano, con opere acquisite da importanti istituzioni come il Museo d’Arte Moderna di Palazzo Pitti e la Galleria Mussolini, oltre alla sua partecipazione a Biennali e Quadriennali.
Lontano dallo stile futurista, Donghi rimane ancorato al figurativo insieme ad altri immensi pittori come Casorati, Campigli, Tosi e Marussig e sceglie di rappresentare il mondo quieto delle case borghesi, costellato di personaggi che sembrano immobili, come mimi diretti da un regista in un piccolo teatro domestico, che una volta è la cucina, un’altra il salotto.
Proprio come nei “Piccoli saltimbanchi”, uno dei suoi capolavori del 1938: i due bambini hanno occhi grandi che sembrano parlare, sembrano in maschera e in attesa che succeda qualcosa, come l’arrivo di una banda o di un circo inesistente. La bellezza della pittura di Donghi sta proprio in questo enigma, quello di un artista che resta sempre sulla soglia, che non vuole indagare gli abissi e che anzi sembra sempre oscillare tra un distacco ironico e un certo sentimento di adesione. Dagli anni ’50 in poi Donghi continua a produrre opere di grande qualità, concentrandosi però sui paesaggi: “Dipingendo un giorno un albero, venne avvicinato da un uomo che gli chiese cosa stesse facendo lì fermo. Alchè Donghi rispose che stava aspettando che smettesse di soffiare il vento, perché le foglie dovevano essere perfettamente immobili”.