L’Iliade cantata dalle dee le pagine di Marilù Oliva
Èun coro femminile quello che stavolta canta L’Iliade, una polifonia ricca e appassionante in cui Marilù Oliva rovescia il canone, tramutandone il punto di vista, per concedere il palco di una delle storie più virili di sempre, storia di guerra, storia di sangue, alle donne. Divine, umane, figlie, mogli, sorelle, vincitrici e vinte: “L’Iliade cantata dalle dee” (Solferino) riporta in vita l’antico poema attraverso una variegata galleria di protagoniste con i loro sguardi lucidi e commossi e con la loro verità. La prima a pronunciarsi è Atena, dea della guerra, ha gli occhi fissi come quelli di una civetta e osserva l’orda di uomini che fluiscono sulla spiaggia, che si arrabattano, che corrono, che fuggono e che si lanciano, e che in ogni modo provano a sopravvivere. Ecco Agamennone: per la riuscita dell’impresa non ha esitato a sacrificare sua figlia Ifigenia, infuocando l’animo della moglie Clitemnestra, che è in straziante attesa di una vendetta. Poco più giù, c’è Crise: lungo la battigia e davanti al mare, affaticato e ormai anziano, padre della bella Criseide che i greci tengono prigioniera e che Agamennone ha scelto come suo personale bottino di guerra. È un reticolo di sentimenti espressi o repressi, visibili o nascosti, quello che si dispiega sotto gli occhi della dea, il prodotto di umane vicende da sempre tali e per sempre uguali a sé stesse: “Ringrazio di non essere toccata dai dissidi umani e di non aver procreato”, si consola Atena, poco prima di assistere alle liti di Achille e Agamennone, alle recriminazioni dell’uno e le minacce dell’altro.
Non solo loro, ma anche gli altri: visti tutti da una posizione che nella distanza smussa i rimproveri e spunta le offese, riuscendo a limare ogni lecito risentimento, questi uomini così rabbiosi somigliano nell’insieme a un armento di formichine ostinate e ignare. È il privilegio di una diversa prospettiva che rende le umane vicende, e l’intero corollario di offese, azzardi, imprechi, minacce, amori proibiti o legittime vendette, un materiale meno incandescente di quanto non siamo abituati a percepirlo: la temperatura si abbassa se a rivangare le gesta degli eroi in terra è lo sguardo di chi li osserva nel distacco. Così il tumulto delle azioni cede il passo al fervore dei sentimenti, come quello materno di Teti verso un figlio, Achille, che non ha potuto crescere ma che ha dolcemente avvolto con le sue braccia d’acqua ogni volta che lui è andato alla ricerca di lei in mezzo al mare. Fra i sentimenti: l’ingiustizia reiterata, l’essere punite o umiliate. È la volta di Cassandra, ripercorriamo il gesto furioso del luminoso Apollo: lei che osa opporre un rifiuto e lui, il puro, l’efebico, che con estrema violenza stringe la presa su quel corpo di donna, la bocca rovente sulla sua pelle. Il destino che segue lo conosciamo bene: leggere fra le pieghe del futuro pur non essendo creduta, e dunque per Cassandra la solitudine, e dunque lo sberleffo, un’eterna diversità fino alla morte. Che siano dee, semidee o semplicemente umane, le nuove protagoniste del canto di guerra tornano a vestire i loro panni tradizionali, e tutti gli intrighi e le perdite e i pericoli e le svolte e gli esiti tragici, ma con un’intensità vergine data da una drammaturgia che stringe il fuoco su di loro. Nessuno scopo risarcitorio nella scrittura, l’intenzione dell’autrice non è affatto quella d’offrire alle protagoniste una via d’uscita o, peggio, un ribilanciamento del fato nel segno di una giustizia maturata poi, ma quella d’accostarsi al canone offrendo un allargamento di prospettiva: più fiato a chi era in parte solo funzione, lunghi flussi di coscienza per tornare a ciò che accadde sui luoghi di combattimento, fra le stanze dei palazzi, quanto venne a consumarsi negli accampamenti, sotto al cielo della notte, nei templi immersi nel silenzio o nel segreto delle stanze in penombra.
Più del resto, però, quanto si esaurì dentro al cuore di chi, donna, prese parte alla guerra in forma indiretta ma non per questo meno cruenta, chi conobbe il dolore, la violenza, l’abuso o il castigo, la sete di riscatto, il veleno della vendetta, la perdita, il lutto e la morte, restando finora al margine di chi ne ha reso testimonianza.