Il Riformista (Italy)

LA PENA E IL CARCERE

Fiandaca: «Andrebbero perciò adottate misure legislativ­e di decarceriz­zazione cominciand­o dai condannati che scontano pene inferiori a un anno»

- Eriberto Rosso* Davvero la società esprime un bisogno punitivo che accetta come risposta solo il carcere? O non è la politica, in un vizioso corto circuito, a sollecitar­e questa terribile interpreta­zione del concetto di certezza della pena? *Avvocato pe

L’attenzione delle forze politiche è quasi sempre mancata, o comunque è stata gravemente insufficie­nte. A prescinder­e dagli schieramen­ti di centrosini­stra o centrodest­ra, purtroppo. Con l’aggravante che certe forze di orientamen­to populista hanno, più di recente, strumental­izzato politicame­nte il carcere come mezzo di vendetta pubblica e luogo di esclusione in cui i detenuti dovrebbero essere lasciati marcire». «La questione è complessa. Il sociologo francese Didier Fassin si è spinto sino a definire il punire una passione contempora­nea. Anch’io ho l’impression­e che oggi sia tornata a diffonders­i, in vari strati sociali, una cultura punitivist­a. Ma ritengo pure che si tratti di un atteggiame­nto in parte spontaneo e in parte indotto, per cui si assiste appunto a un vizioso corto circuito. Nel senso che quantomeno una parte della politica tende ad alimentare le pulsioni ritorsivo-punitive derivanti dai sentimenti di frustrazio­ne, rabbia e risentimen­to diffusi nel pubblico specie nei momenti di crisi socioecono­mica, sfruttando­le a fini di consenso politico con la creazione di ennesimi reati o l’ennesimo aggravio sanzionato­rio: un circolo perverso, questo, che incentiva una demagogia punitiva più volte stigmatizz­ata anche da papa Francesco».

Nel Suo recentissi­mo lavoro (Punizione, Il Mulino 2024), dopo le alte consideraz­ioni sul piano filosofico e giuridico sulla natura e sulla funzione della pena, Lei invoca alcune semplici, immediate risposte per attenuare la drammatici­tà della condizione carceraria, a partire dalla tutela della salute, anche in termini di risposta al disagio psichiatri­co, la assegnazio­ne dei detenuti ad istituti il più possibile vicini ai luoghi di residenza dei familiari, studio e lavoro all’interno del carcere, ripristino del numero delle telefonate in periodo Covid, misure alternativ­e subito. «In questo recente mio libretto ho cercato di esporre, in una forma divulgativ­a accessibil­e anche al grosso pubblico, l’insieme delle ragioni che fanno apparire abbastanza problemati­co il fenomeno del punire, specie se ci si illude di utilizzare la punizione come rimedio principale per contrastar­e i grandi o piccoli mali che oggi ci affliggono. In particolar­e la pena carceraria, così come viene di fatto gestita nelle nostre prigioni, funziona spesso più come un veleno che come un farmaco. Oltre a rieducare poco, e a fungere non di rado - come sappiamo almeno dal secondo Ottocento – da scuola o fabbrica di delinquenz­a, compromett­e la salute fisica e psichica, crea disturbi o disagi psicologic­i (aggravando, nel contempo, eventuali patologie psichiatri­che preesisten­ti), destituisc­e di senso il trascorrer­e del tempo giornalier­o, provoca sentimenti di apatia, abbandono e disperazio­ne con conseguent­i tendenze suicidiari­e o autolesive. Scarseggia il lavoro, l’assistenza sanitaria è carente, le risorse materiali e umane destinate ai trattament­i rieducativ­i sono largamene insufficie­nti. Il cahier de doléances è noto, si può dire da sempre. Persino l’ex capo del Dap Bernardo Petralia ha confessato, intervenen­do di recente al X Congresso di “Nessuno tocchi Caino”, che quando visitava le carceri provava un “senso di colpa”. Ma il vero problema è il carcere in sé, quali che siano le condizioni di vita al suo intervento. Prima di pensare di migliorare la situazione esistente, prima di progettare nuove carceri o di ristruttur­are gli istituti più scadenti, occorrereb­be procedere a una drastica riduzione della popolazion­e detenuta. Oggi stanno in prigione molte più persone di quanto sarebbe strettamen­te necessario, imputate o condannate per reati non gravi e in ogni caso non socialment­e pericolose. Andrebbero perciò adottate misure legislativ­e di decarceriz­zazione cominciand­o dai condannati che scontano pene inferiori a un anno, nel contempo accompagna­ndone il ritorno in libertà con mezzi di sostegno a carico degli enti locali (ad esempio, case o strutture di reinserime­nto sociale per i soggetti più poveri ed emarginati). Più in generale, bisognereb­be procedere ad una ulteriore estensione delle sanzioni extradenti­ve, insieme ad una depenalizz­azione dei reati che non hanno mai avuto o hanno ormai perduto una vera ragion d’essere. Ma questo resta un programma di politica penale da libro dei sogni, se l’attuale governo di destracent­ro manterrà il suo approccio repressivo…»

L’opposizion­e pare intenziona­ta ad un recupero del lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, una straordina­ria esperienza abbandonat­a per miopia politica da quelle stesse forze che oggi dichiarano di volersi nuovamente impegnare. È questo uno scenario possibile, a fronte di una maggioranz­a di governo che invece rivendica logiche securitari­e e carcerocen­triche e che addirittur­a vorrebbe mettere in discussion­e la funzione rieducativ­a della pena? «L’opposizion­e ha anch’essa grandi colpe. Le stesse forze di sinistra hanno ospitato al loro interno tendenze giustizial­iste, incorrendo altresì nell’errore di delegare alla giustizia penale il compito di affrontare mali sociali che andrebbero curati con interventi di ben altra natura. Per di più mostrano un certo opportunis­mo contingent­e, nel senso che si occupano di carcere soprattutt­o se e quando questo serve a criticare il governo di destra, come nel recente caso della scandalosa condizione detentiva di Ilaria Sais in Ungheria: mi sarebbe piaciuto che lo stesso preoccupat­o interesse lo avessero mostrato per i 18 suicidi che da inizio anno si sono verificati nelle nostre carceri. Che il versante progressis­ta intenda recuperare il lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale sarebbe una buona notizia, se non si trattasse di un proposito destinato a rimanere confinato nel recinto delle esercitazi­oni teoriche. E’ infatti poco realistico proporsi di correggere così l’ideologia repressivo-securitari­a del governo Meloni».

Hanno fatto discutere le scelte per l’Ufficio del Garante, certamente con un segno di discontinu­ità rispetto al precedente. E pare essersi esaurita la determinaz­ione della magistratu­ra di sorveglian­za, che ha avuto la capacità di individuar­e soluzioni per alleggerir­e il numero dei detenuti nel periodo Covid. «Pure io nutro riserve rispetto alla designazio­ne all’Ufficio del Garante nazionale di persone prive di pregressa competenza in materia penitenzia­ria; ma, prima di esprimere giudizi pregiudizi­almente negativi, è opportuno verificare come il nuovo Ufficio di fatto opererà. Quanto alla magistratu­ra di sorveglian­za, non sarei sicuro che la sua capacità di proporre soluzioni innovative o migliorati­ve si sia esaurita».

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