Il Riformista (Italy)

LA GALERA AMMINISTRA­TIVA, L’ALTRA VERGOGNA

L’imputato ha un incondizio­nato diritto ad ottenere il riesame della propria condanna sulla base di un qualsiasi motivo che possa rivelarsi idoneo a riformarla

- Elena Valentini* *Professore­ssa associata di procedura penale

Ultimament­e, molte sono state le occasioni e le ragioni per puntare i fari sui centri di detenzione per stranieri: il clamore e le nocive polemiche attorno al “caso Apostolico”, a margine del quale le Sezioni unite hanno appena sollecitat­o la Corte di giustizia UE ad esprimersi sulla disciplina del trattenime­nto dei richiedent­i asilo (come innovata dal decreto Cutro); la volontà di costruire nuovi centri di preparazio­ne al rimpatrio, ostracizza­ta dagli amministra­tori locali (anche di centrodest­ra) e sfociata nella stipula del controvers­o patto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama per creare alcuni C.P.R. e punti di crisi in Albania. Soprattutt­o: i contenuti di alcune inchieste giudiziari­e e giornalist­iche, che hanno mostrato le condizioni di vita all’interno di tali strutture contribuen­do a spiegare i tanti suicidi tra i loro “ospiti”.

È un bene che il livello di attenzione si sia alzato. E sarà un bene che resti alto. Infatti, almeno dichiarata­mente, la politica europea e quella nazionale puntano molto sul confinamen­to dei non-cittadini: di quelli irregolari (destinati a un rimpatrio spesso impossibil­e da attuare) e dei richiedent­i asilo, specie se provenient­i dai cosiddetti Paesi terzi sicuri (etichetta data anche a Paesi tutt’altro che sicuri).

Tale scenario enfatizzer­à le tante anomalie della disciplina già in vigore, e i cui tratti salienti è utile ricordare. Innanzitut­to, il trattenime­nto (ipocritame­nte, la legge non usa mai la parola detenzione) può attingere persone che non hanno commesso alcun reato, e che vengono recluse – nella prospettiv­a di essere allontanat­e dall’Italia e dall’UE – in luoghi dai quali è impossibil­e uscire (e dunque diversi dai centri di accoglienz­a: distinzion­e non sempre chiara all’opinione pubblica). L’ingresso nei C.P.R. non è decretato da un giudice penale, ma dall’autorità di polizia, la cui scelta è sottoposta alla convalida del giudice di pace civile e non del tribunale (a meno che lo straniero non presenti istanza d’asilo, con una differenza poco persuasiva, visto che in entrambi i casi la posta in gioco è sempre la libertà personale). Contrariam­ente a quanto preteso dalla Costituzio­ne, la cornice legale non regola neppure gli aspetti primari della vita nei centri, che risulta dunque governata da un’opaca commistion­e tra poteri pubblici e soggetti privati (gli enti gestori): i quali puntano al risparmio, con ricadute drammatich­e in primis sulla salute degli ospiti.

Il quadro normativo appena descritto non è nuovo (come non nuove sono le degradazio­ni delle prassi, che frustrano le già scarne garanzie comunque riconosciu­te dalla legge). Esso si appresta però a peggiorare. Ciò avverrà in forza di alcune innovazion­i già entrate a regime, tra cui spicca l’aumento della durata massima di permanenza nei C.P.R., portata a 18 mesi. Ma anche in forza delle riforme in cantiere: infatti,

se da un lato l’Unione europea mostra di mirare alla detenzione su larga scala dei nuovi giunti (onde impedire i movimenti secondari verso Paesi non di primo ingresso), dall’altro, dopo il placet della Corte costituzio­nale di Tirana, procede spedito il percorso inaugurato con la stipula del protocollo Italia-Albania.

Su tale percorso non va abbassata la guardia: basti pensare che – fra i suoi tanti difetti – la legge di ratifica del patto (appena varata) non chiarisce come sarà garantito il diritto di difesa dei migranti soggetti alla giurisdizi­one extraterri­toriale italiana (in proposito, si consideri che le udienze di convalida possono celebrarsi con lo straniero in videocolle­gamento dal centro). Più in generale, e al di là del giudizio politico sui suoi contenuti, va segnalato il probabile effetto boomerang dell’accordo, che, oltre a generare ingenti spese, vedrà condurre in Italia molte delle persone – quelle inespellib­ili – già detenute oltre confine, prevedibi mente esacerbate dalla cattività nelle strutture albanesi (che potrà appunto protrarsi per un anno e mezzo).

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