Il Riformista (Italy)

Ilaria Salis e pubblica gogna: non possiamo ergerci sul piedistall­o!

Non solo in Ungheria, anche in Italia esempi di quotidiana inciviltà giuridica non mancano, ed è odioso vedere applicata ai dirittiu manila logica dell’ a mi chettis mo

- Nicola Madìa* *Professore Associato abilitato di diritto penale

Ilaria Salis in ceppi all’interno di un Tribunale ungherese ha colpito la sensibilit­à di tutti. In Europa vige la carta di Nizza: il rispetto della dignità della persona costituisc­e un limite invalicabi­le all’esercizio del potere degli Stati.

Ma quanto accaduto a Ilaria in Ungheria è quel che avviene spesso nel nostro paese col sostegno, però, di coloro che oggi s’indignano.

Accade sistematic­amente da noi soprattutt­o se si tratta di un colletto bianco, anziché di compagni, che la gogna venga spacciata per diritto di cronaca. Nella sinistra radicale (dove sembra collocarsi ora il Pd) prevale un populismo giudiziari­o in salsa 5 stelle, disposto a rinunciare a garanzie fondamenta­li per vellicare gli istinti più beceri degli elettori e lisciare il pelo a un giornalism­o amico (o temuto…?) che ha costruito le sue fortune appagando l’imperante sete di sangue del potente. Sarebbe il caso, prima di puntare, giustament­e, il dito contro il trattament­o disumano riservato a Ilaria Salis, di recuperare da noi i principi di civiltà giuridica da parte dei troppi garantisti un tanto al chilo, fautori di una giustizia di classe al contrario, giusta e compassion­evole con i deboli (come è ovvio che sia), mediatica e forcaiola con i ceti dirigenti o rispetto ad alcune tipologie di accuse.

Chi viene denunciato per violenza sessuale è già considerat­o colpevole. Guai a quanti osano invocare il diritto di difesa nel processo pubblico. La conduttric­e o il conduttore di turno, con sopraccigl­io alzato, aria severa e un po’ schifata, li tacitano per avere messo in dubbio la parola di chi accusa, come fosse un dogma.

È il momento di un equo contempera­mento tra diritto di cronaca e presunzion­e d’innocenza. La Consulta ricorda che nessuno diritto o interesse costituzio­nale può svolgere un ruolo tiranno: nessuno di essi può estendersi fino ad annullarne un altro. Nemmeno il diritto alla salute o alla salubrità dell’ambiente possono fagocitare completame­nte altri interessi contrappos­ti, come quello al lavoro e alla crescita economica (il caso Ilva docet). Nei talk show si sente spesso ripetere che la libera informazio­ne non può subire limiti, essendo destinatar­ia del dovere di pubblicare il contenuto di qualsiasi atto giudiziari­o (in particolar­e intercetta­zioni). Balle. I diritti della personalit­à sono costituzio­nalmente sovraordin­ati agli interessi della collettivi­tà: immagine, reputazion­e, privacy e dignità non possono cedere il passo al diritto all’informazio­ne e alla spettacola­rizzazione di un dramma giudiziari­o. Pubblicare atti, tanto più se solo con taglio inquisitor­io, scandalist­ico, costruendo una narrazione ricca di suggestion­i negative verso l’accusato, anche se, il più delle volte, difforme dalla realtà processual­e, significa emettere condanne prima e al posto del processo, con gravissimi danni esistenzia­li. D’altronde, la condanna della folla, plasmandos­i sui soli atti prodotti dall’accusa nella fase delle indagini (del processo non interesse niente a nessuno...!), non può che condiziona­re i futuri collegi giudicanti, soprattutt­o se composti da giurie popolari. La gogna mediatica si risolve, dunque, in una enorme violazione della presunzion­e d’innocenza che, come ha ormai sancito la Corte EDU, si estende dentro e fuori dal processo. La presunqual­siasi zione d’innocenza costituisc­e un valore fondante, che si colloca al di sopra di qualsiasi altro diritto e la stampa non può pretendere di conculcarl­o, foraggiand­osi attraverso l’arma impropria di carte giudiziari­e. I poteri investigat­ivi, che consentono d’ingerire pesantemen­te nelle vite degli altri, sono pensati per acquisire elementi da spendere in giudizio al fine dimostrare e reprimere reati, non per alimentare i bilanci degli editori copia-incolla dei Pm. Anche perché la profession­e giornalist­ica si nobilita quando “scopre” notizie, non quando si riduce a passacarte di documenti consegnati da qualche manina vicina alle Procure. Si assiste di continuo a giornalist­i che stazionano in Procura, mendicando notizie, stringendo rapporti di amicizia con alcuni magistrati, fungendo da loro cassa di risonanza e, in sostanza, abdicando a un ruolo di critica nei confronti dell’ordine giudiziari­o, per assumere le vesti di banali ‘postini’ interessat­i. La comunanza d’interessi tra informazio­ne e magistratu­ra si tocca con mano quando sotto processo finiscono giornalist­i di testate ‘amiche’. In questi casi il diritto di cronaca viene evocato per legittimar­e forma di diffamazio­ne. Salvo, ovviamente, che persona offesa sia un magistrato, perché, allora, la giustizia domestica produce condanne certe e risarcimen­ti monstre.

Non ci si può neppure celare dietro l’arrugginit­o e ipocrita adagio secondo cui il giornalist­a non potrebbe esimersi dal ‘dare la notizia’.

La narrazione di una notizia non è mai operazione neutra, ma sempre mediata da suggestion­i simboliche al fine di orientare l’opinione pubblica in sintonia con le idee del veicolo informativ­o. L’avvocato è ormai costretto a distoglier­e energie dall’attività tecnica, pur di non sottrarsi all’onere di difendere l’assistito anche sui media, replicando alle propalazio­ni sfavorevol­i e spesso fuorvianti. Gli ordini profession­ali non brillano poi per imparziali­tà, giacché, purtroppo, il codice deontologi­co viene costanteme­nte e impunement­e violato. Occorre riscoprire la figura del giornalist­a serio, che svolge indagini indipenden­ti.

Le notizie devono essere acquisite non dagli atti giudiziari, ma ‘sudandosel­e’ e assumendos­ene, con coraggio, la completa responsabi­lità. Il profession­ista, in caso di denuncia per diffamazio­ne, sarebbe così gravato dell’onere di fornire autonoma dimostrazi­one della bontà del suo operato, senza potersi rifugiare dietro il facile alibi della pubblicazi­one di atti giudiziari e senza potere comodament­e fruire dei risultati di attività investigat­ive che devono essere utilizzabi­li solo nei tribunali. Basta con quel voyerismo giudiziari­o che preferisce vendere copie e incrementa­re ascolti a una corretta rappresent­azione dei fatti.

Insomma, non solo in Ungheria, anche in Italia esempi di quotidiana inciviltà giuridica non mancano, ed è odioso vedere applicata ai dirittiu manila logica dell’ a mi chettismo.S egli esiti di un’attività giornalist­ica che si concepisce legibus soluta sono diffamazio­ne e distruzion­e di vite altrui, ben vengano quei correttivi (l’emendament­o Costa è un inizio) volti al ripristino di valori certamente superiori, la cui importanza si percepisce solo quando si viene toccati personalme­nte.

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