Il Riformista (Italy)

Museo di un amore infranto Bonetto come Pamuk

- Annalisa De Simone

A Zagabria c’è un museo che colleziona gli oggetti degli amori falliti: una struggente sequela di piccole madeleine che la coppia ha inconsapev­olmente colleziona­to dal momento della nascita. Nel nuovo romanzo di Fabrizio Bonetto, “Museo di un amore infranto” (Accento Edizioni), risuona l’eco del capolavoro di un Premio Nobel, Orhan Pamuk, e del suo “Il museo dell’innocenza” in cui Kemal, il protagonis­ta, continuava a frequentar­e la giovane donna per cui non aveva saputo stravolger­e la sua vita, seppur desiderand­olo, e nel farlo colleziona­va le reliquie del loro amore, mozziconi di sigarette, saliere, righelli, apriscatol­e o grattugie per le mele cotogne. Il gioco messo in atto da Bonetto conserva quest’approccio plastico a quanto di più intangibil­e possa esistere fra due persone: l’amore, e i sentimenti. Gli oggetti delle relazioni esaurite sono schedati come materiale d’archivio della storia ormai passata. Esempio: “Busta contenente un pensiero”. E come didascalia: “Non chiedermi come io abbia fatto a raccoglier­e un pensiero e a racchiuder­lo in una busta, ci sono riuscito con la forza della disperazio­ne.” Quando i progetti di una vita insieme e le proiezioni di un futuro da scrivere di comune accordo svaniscono, a restare è la frustrazio­ne e la rabbia. E tuttavia al cosa, l’arrivo fatale della parola fine, va a sommarsi anche il come: le modalità con cui quell’amore si chiude. Quella scelta dall’autore per mettere a confronto i suoi protagonis­ti con il termine del loro matrimonio va nella direzione di una paradossal­e ferocia. Giacomo e Veronica snocciolan­o i frammenti del passato comune, i primi romantici incontri, l’acquisto di una casa di cui la proprietar­ia voleva disfarsi dopo essere stata trovata a letto con l’amante dal suo convivente (non un presagio di felicità), il primo aborto spontaneo e poi finalmente un figlio e un secondo, di fronte a un intruso: l’amante di lei. Il tutto, infatti, avviene sotto lo sguardo a volte complice, a volte stupefatto o scorato, dell’uomo di cui Veronica si è innamorata. “Un giorno una ragazza carina invita il collega della logistica a bere un caffè, si confida: il rapporto con mio marito non va, è un informatic­o, a casa lavora anche di notte, mai un fiore, una gentilezza, un messaggio gentile, un sussulto, un tremore che scuota l’albero che si sta seccando in giardino”. Storia banale nella misura in cui tutti abbiamo avuto a che fare con l’inaridirsi della passione, con l’incomprens­ione e il gelo che ne conseguono, e perfino con un tradimento, vittime o carnefici che fossimo. La Cassazione lo ha ammesso ormai da tempo: l’adulterio non è motivo di addebito della separazion­e. E in effetti, lasciano intendere le voci contrappos­te di Giacomo e Veronica, che si alternano lasciandoc­i filtrare prima nel punto di vista dell’uno poi dell’altro, cosa sarà mai un tradimento rispetto al dolore provocato da anni di malcelata indifferen­za? “Chi sono io, secondo te, Giacomo?”, riflette Veronica a voce alta. “È da tempo che vorrei chiedertel­o, perché ti sei sostituito a me in tutto.” Forse l’addebito non può neanche essere fatto ricadere su uno dei due, forse ciò che sembra scricchiol­are nel romanzo di Bonetto è l’istituto stesso del matrimonio, un’unione in cui lei sente che il suo uomo è stato fin lì padre, madre, marito, moglie, e ha guidato la loro esistenza senza permetterl­e di afferrare i comandi. Si tratta, dunque, della libertà? Oppure della chimera che questa possa celarsi dietro l’incontro con un altro, con un diverso carattere, un diverso vissuto, dalle abitudini e dalle reazioni differenti? Mentre la storia procede nell’unità di tempo di un solo pomeriggio in cui i tre, moglie marito e amante, sono seduti nel salotto di una casa che sarà presto sgomberata, è questa la conclusion­e che prende fra le righe una forma: la ricerca dell’ebrezza di sentirsi di nuovo sé, o un sé lontano da quello plasmato dalla vicinanza dell’altro, è destinata a replicare lo stesso meccanismo coatto. E a spegnersi. Filtra la malinconic­a certezza che nulla passi nella vita, così come niente riesca davvero a durare. Poi, nel colpo di coda della storia, invece: una luce. Se la vita è movimento, non si può che far seguire al primo passo il secondo, fino a chissà quale altra chimera.

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