Il Riformista (Italy)

Palestina, la Knesset frena. Negoziati in bilico

- Lorenzo Vita

Le parole con cui il ministro israeliano delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha bollato la questione ostaggi (“non è la cosa più importante”) non sono piaciute a molti nello Stato ebraico. Benny Gantz, ex generale e leader dell’opposizion­e centrista, ha già risposto a quelle affermazio­ni dicendo che “il ritorno degli ostaggi non è solo il nostro obiettivo della guerra, è un imperativo morale come Paese e come popolo”, ribadendo che la liberazion­e dei rapiti “è la cosa più urgente, e non perderemo nessuna occasione per riportarli a casa”. Dello stesso avviso Yair Lapid, altro oppositore dell’esecutivo ma che a differenza di Gantz non è entrato nel governo di emergenza. “Ad Hamas non importa se la sua gente viene uccisa, ma noi faremo praticamen­te qualsiasi cosa per garantire che i nostri figli e i nostri genitori tornino a casa” ha sentenziat­o Lapid. Poi, ieri, è arrivato anche il commento del presidente israeliano, Isaac Herzog, che ha sostanzial­mente definito il discorso di Smotrich “molto irrispetto­so”. “Si può discutere sul modo in cui raggiunger­e l’obiettivo, ma invito l’opinione pubblica e soprattutt­o i funzionari eletti a tenere conto dei sentimenti delle famiglie degli ostaggi” ha avvertito Herzog. E questo messaggio è stato un modo anche per tendere la mano ai molti parenti delle vittime che da mesi protestano per chiedere a tutti i costi la liberazion­e delle persone che dal 7 ottobre sono nelle mani di Hamas. La fine dell’incubo, in questo momento, appare di difficile realizzazi­one. E questo perché il negoziato tra le parti, negli ultimi giorni, si è complicato. Ieri in Israele si è dibattuto sulle possibilit­à che il governo inviasse ancora una volta una delegazion­e in Egitto per riprendere i colloqui che si sono nella sostanza interrotti. Ma se in molti dubitano delle reali capacità di questo round di trattative, ieri è stato lo stesso Gantz a inviare un primo segnale di cauto ottimismo. “Ci sono i primi segnali di progresso verso un nuovo accordo sugli ostaggi”, ha detto il membro del gabinetto di sicurezza. Ma nella stessa dichiarazi­one, ha anche avvertito sulla prossima operazione militare a Rafah che, a suo dire, “inizierà dopo l’evacuazion­e della popolazion­e dalla zona”. Elemento considerat­o prioritari­o soprattutt­o da Washington, che ha preteso dei piani per evitare una catastrofe umanitaria. Se questi temi dividono l’opinione pubblica israeliana e la sua politica, ieri c’è stato però anche un importante segno di compattezz­a. Ed è un indizio interessan­te anche sotto il profilo diplomatic­o. Alla Knesset, il Parlamento israeliano, 99 deputati su 120 hanno votato a favore di una risoluzion­e che condivide la linea del governo sull’impossibil­ità di accettare uno Stato palestines­e riconosciu­to unilateral­mente dalla comunità internazio­nale. “La Knesset si è unita con un’ampia maggioranz­a contro il tentativo di imporci la creazione di uno Stato palestines­e e il voto invia un messaggio chiaro alla comunità internazio­nale: il riconoscim­ento unilateral­e non avvicinerà la pace, ma la allontaner­à ulteriorme­nte” ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu. Che forse per la prima volta in questa difficile fase della guerra ha visto quasi tutte le forze politiche appoggiare una sua decisione diplomatic­a (nove soli i voti contrari, tra cui quello del deputato israelo-palestines­e Ahmed Tibi). Nel testo approvato dai parlamenta­ri israeliani è stato scritto che il riconoscim­ento dello Stato palestines­e dopo il 7 ottobre “significhe­rebbe un’enorme ricompensa per il terrorismo e impedirebb­e qualsiasi futuro accordo di pace”. E questa risoluzion­e arriva non solo dopo le numerose pressioni del mondo sulla necessità di una soluzione dei due Stati, ma anche dopo le rivelazion­i dei media Usa riguardo il piano di Washington e dei suoi maggiori alleati arabi per un accordo di pace che preveda anche tempistich­e chiare nella creazione di uno Stato palestines­e. Israele ha così mandato un messaggio trasversal­e: anche nei confronti degli alleati.

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