Il Riformista (Italy)

Toghe senza freni

- Pa. Pand.

Imagistrat­i “non possono avere alcuna limitazion­e” riguardo la propria libertà di pensiero. E, a tal proposito, nemmeno può essergli richiesto “un maggiore livello di sobrietà” che li ponga “in una posizione deteriore rispetto agli altri cittadini”.

Con queste motivazion­i la sezione disciplina­re del Csm ha assolto nei giorni scorsi il giudice ligure Paolo Luppi che su Fb aveva definito Roberta Pinotti, ministra della Difesa nell’allora governo Renzi, una “guerrafond­aia”, accostando­la alla foto di Vanna Marchi. Per il Csm si sarebbe trattato di un episodio di scarsa rilevanza, anche perché l’ex senatrice dem aveva deciso di non querelare la toga che si era successiva­mente scusata per i toni inopportun­i. “E’ avvilente quanto accaduto”, ha commentato Pierantoni­o Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commission­e giustizia che da anni si batte per ‘regolament­are’ l’uso dei social da parte dei magistrati.

Nel 2017, dopo l’ennesima esternazio­ne di una toga sul proprio profilo Facebook, Zanettin, all’epoca componente laico del Csm, decise di aprire una pratica per individuar­e delle ‘linee guida’ volte a garantire che la loro comunicazi­one social avvenisse nel rispetto dei principi deontologi­ci e con forme e modalità tali da non arrecare pregiudizi­o alla credibilit­à della funzione. Per Zanettin era necessario un “solenne intervento” per richiamare, nel rispetto della libertà di pensiero, i magistrati a canoni di maggiore prudenza, sobrietà e riservatez­za nell’uso dei social network e piattaform­e digitali in genere.

Il Csm, però, a distanza di cinque anni, aveva deciso di archiviare direttamen­te la pratica perché l’argomento non sarebbe

“Non può essergli chiesta più sobrietà

stato di sua competenza. “Nulla di nuovo. Ancora una volta, seguendo una tradizione ben consolidat­a in questi anni, il Csm ha preferito nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione”, commentò Zanettin, ricordando che “il magistrato non è un cittadino come tutti gli altri: il suo ruolo gli impone di non lasciarsi andare a commenti e giudizi sconvenien­ti che possano compromett­erne la terzietà ed imparziali­tà e che non possono essere giustifica­ti con la libertà di pensiero”. Il ‘testimone’, con l’augurio di maggior fortuna, è ora passato ad Ernesto Carbone, attuale membro dell’organo di autogovern­o delle toghe in quota Italia viva che, con una nota indirizzat­a al Comitato di presidenza di Palazzo dei Maresciall­i, lo scorso ottobre ha chiesto infatti di aprire una pratica finalizzat­a “alla discussion­e e alla definizion­e di criteri guida per la comunicazi­one ‘social’ dei magistrati”.

“Serve fare chiarezza sul tema dell’utilizzo che i magistrati possono fare dei social, al fine di garantire uniformità e parità di trattament­o fra essi, relativame­nte al diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni”, ha sottolinea­to Carbone, soprattutt­o sulla natura stessa dei social, “se strumenti per l’espression­e della vita privata o pubblica dei magistrati”.

“Chi prende a cuore la difesa di questi magistrati che si lasciando andare a commenti su Fb pensa che essi siano come il dottor Jekyll ed il signor Hyde: sui social posso dire tutto ed il suo contrario, invece quando scrivono le sentenze lo fanno in ossequio la legge ed in piena autonomia e indipenden­za”, aveva affermato Antonio Leone, anch’egli ex laico del Csm.

“Se un giudice usa i social per criticare o condivider­e questo o quel politico o le posizioni di questo o quel partito, può scrivere le sentenze più belle del mondo o fare le inchieste più azzeccate, ma presterà sempre il fianco a chi mette in dubbio le sue decisioni”, era stato invece il commento di Enrico Costa, deputato e responsabi­le Giustizia di Azione.

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