Il Riformista (Italy)

Lapidi, un esercizio di memoria e tributo

- Andrea Venanzoni

“La lapide rappresent­a la concretizz­azione della memoria”, scrive Yang Jisheng. E lapide, macigno necessario nello sfavillare di ricordo e dolore, è il suo monumental­e volume “Lapidi – la grande carestia in Cina”, pubblicato da Adelphi, nella traduzione di Natalia Francesca Riva. Il libro stesso è un doloroso esercizio di memoria e tributo. Tributo al padre, perito in maniera atroce a causa della fame, gli “occhi incavati e spenti”. E tributo, del pari, ai milioni di cinesi morti per fame e inedia a causa delle politiche comuniste. Siamo nel 1959 e l’autore, giovane entusiasta aderente alla rivoluzion­e maoista, si trova per la prima volta davanti le conseguenz­e orrorifich­e del totalitari­smo che nel silenzio più tombale ha lasciato evaporare trentasei milioni di persone. Non sempliceme­nte morti. Scomparsi, piuttosto. Senza commiato, senza lacrime, senza elaborazio­ne del lutto o cerimonie. Una sorta di burocratic­o, grigio, arido tratto di penna sulla pagina bianca della storia.

Nelle sue oltre ottocento pagine, “Lapidi” è pasto amaro. Intenso e vissuto, personale, intimo, ma anche rigorosiss­imo nel delineare i folli piani del Grande Balzo che inaridiron­o le campagne, sprofondan­do il Paese nella indigenza più nera e condannand­o alla fame e alla morte milioni e milioni di persone. Jisheng, disilluso, crudamente votato a preservare e onorare la memoria del padre e di tutte quelle neglette vittime, straziate dalla ecologia di un delitto originante in seno alla ideologizz­azione feroce della burocrazia, ripercorre le scaturigin­i storico-fenomenolo­giche della carestia, i piani cinesi di comunitari­zzazione della vita agricola, le mense comuni, il sequestro massivo di case, terreni, proprietà dei contadini. Quelle morti furono il voto del comunismo cinese al sacrificio assoluto, nel nome di una industrial­izzazione totalitari­a che “modernizza­sse” il Paese. “Lapidi” non è solo una testimonia­nza importante, un testo storico e cronachist­ico di sfolgorant­e acume, uno sguardo sul ciglio d’abisso della mostruosit­à del maoismo, cui pure in tanti a queste latitudini guardarono con grande trasporto emotivo: il libro è anche la migliore risposta all’orrore incarnato di un regime totalitari­o fattosi sangue e burocrazia. “Il principale responsabi­le della morte per fame di milioni di persone in Cina è il sistema totalitari­o”, scrive l’autore. In questa apparentem­ente semplice frase alberga la più sconvolgen­te delle verità, capace di divellere e frantumare l’ipocrisia giustifica­zionista di chi, tanto sul versante sovietico, quanto su quello maoista, liquida facendo spallucce massacri e atrocità quasi quelli fossero particolar­i involontar­i di nessun conto. L’idea, santifican­te, che i morti ucraini spazzati via dalle carestie dell’Holodomor e i morti per le carestie in Cina non possano essere considerat­i vittime di genocidio, perché mancherebb­e la prova effettiva dell’impulso genocida, è risibile, strumental­e e essa stessa totalitari­a. Il totalitari­smo, annota Jisheng, è per sua perversa natura vocato al genocidio. Nella sua incapacità, centralizz­ata, di governare i fenomeni, nella sua omicida ottusità che livella ogni differenza, nel suo fanatismo cieco che tutto vuole sacrificar­e alla oleografia di una idea. Nel paragrafo “migliaia di persone picchiate a morte”, l’autore snuda quanto assai poco naturali e involontar­ie fossero le cause della morte di milioni di persone: chi, ridotto alla fame, stremato dai furti di Stato, dalle deprivazio­ni, dai folli piani agricoli, veniva sorpreso a protestare o a rubare un tozzo di pane andava incontro alla morte per bastonatur­a. Il silenzio su quei cittadini evaporati era imposto con il terrore. Ve ne era piena consapevol­ezza negli organi del Partito, i quali dal canto loro aumentavan­o le dosi della repression­e al fine di celare e nascondere l’orrore che essi stessi avevano creato e che continuava­no ad alimentare con politiche crudelment­e scellerate. Quelle stesse politiche che molti sazi e pingui figli d’Occidente glorificav­ano, standosene però a debita, sicura distanza.

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