Lapidi, un esercizio di memoria e tributo
“La lapide rappresenta la concretizzazione della memoria”, scrive Yang Jisheng. E lapide, macigno necessario nello sfavillare di ricordo e dolore, è il suo monumentale volume “Lapidi – la grande carestia in Cina”, pubblicato da Adelphi, nella traduzione di Natalia Francesca Riva. Il libro stesso è un doloroso esercizio di memoria e tributo. Tributo al padre, perito in maniera atroce a causa della fame, gli “occhi incavati e spenti”. E tributo, del pari, ai milioni di cinesi morti per fame e inedia a causa delle politiche comuniste. Siamo nel 1959 e l’autore, giovane entusiasta aderente alla rivoluzione maoista, si trova per la prima volta davanti le conseguenze orrorifiche del totalitarismo che nel silenzio più tombale ha lasciato evaporare trentasei milioni di persone. Non semplicemente morti. Scomparsi, piuttosto. Senza commiato, senza lacrime, senza elaborazione del lutto o cerimonie. Una sorta di burocratico, grigio, arido tratto di penna sulla pagina bianca della storia.
Nelle sue oltre ottocento pagine, “Lapidi” è pasto amaro. Intenso e vissuto, personale, intimo, ma anche rigorosissimo nel delineare i folli piani del Grande Balzo che inaridirono le campagne, sprofondando il Paese nella indigenza più nera e condannando alla fame e alla morte milioni e milioni di persone. Jisheng, disilluso, crudamente votato a preservare e onorare la memoria del padre e di tutte quelle neglette vittime, straziate dalla ecologia di un delitto originante in seno alla ideologizzazione feroce della burocrazia, ripercorre le scaturigini storico-fenomenologiche della carestia, i piani cinesi di comunitarizzazione della vita agricola, le mense comuni, il sequestro massivo di case, terreni, proprietà dei contadini. Quelle morti furono il voto del comunismo cinese al sacrificio assoluto, nel nome di una industrializzazione totalitaria che “modernizzasse” il Paese. “Lapidi” non è solo una testimonianza importante, un testo storico e cronachistico di sfolgorante acume, uno sguardo sul ciglio d’abisso della mostruosità del maoismo, cui pure in tanti a queste latitudini guardarono con grande trasporto emotivo: il libro è anche la migliore risposta all’orrore incarnato di un regime totalitario fattosi sangue e burocrazia. “Il principale responsabile della morte per fame di milioni di persone in Cina è il sistema totalitario”, scrive l’autore. In questa apparentemente semplice frase alberga la più sconvolgente delle verità, capace di divellere e frantumare l’ipocrisia giustificazionista di chi, tanto sul versante sovietico, quanto su quello maoista, liquida facendo spallucce massacri e atrocità quasi quelli fossero particolari involontari di nessun conto. L’idea, santificante, che i morti ucraini spazzati via dalle carestie dell’Holodomor e i morti per le carestie in Cina non possano essere considerati vittime di genocidio, perché mancherebbe la prova effettiva dell’impulso genocida, è risibile, strumentale e essa stessa totalitaria. Il totalitarismo, annota Jisheng, è per sua perversa natura vocato al genocidio. Nella sua incapacità, centralizzata, di governare i fenomeni, nella sua omicida ottusità che livella ogni differenza, nel suo fanatismo cieco che tutto vuole sacrificare alla oleografia di una idea. Nel paragrafo “migliaia di persone picchiate a morte”, l’autore snuda quanto assai poco naturali e involontarie fossero le cause della morte di milioni di persone: chi, ridotto alla fame, stremato dai furti di Stato, dalle deprivazioni, dai folli piani agricoli, veniva sorpreso a protestare o a rubare un tozzo di pane andava incontro alla morte per bastonatura. Il silenzio su quei cittadini evaporati era imposto con il terrore. Ve ne era piena consapevolezza negli organi del Partito, i quali dal canto loro aumentavano le dosi della repressione al fine di celare e nascondere l’orrore che essi stessi avevano creato e che continuavano ad alimentare con politiche crudelmente scellerate. Quelle stesse politiche che molti sazi e pingui figli d’Occidente glorificavano, standosene però a debita, sicura distanza.