Il Riformista (Italy)

Fino all’alba, dall’affresco al ritratto in miniatura

- Annalisa De Simone

Dal grande affresco al ritratto in miniatura: in “Fino all’alba”, tradotto per Einaudi da Margherita Botto, Carole Fives costruisce una narrazione che si concentra e si schiaccia sul quotidiano, le frustrazio­ni, tutta la sua alienante meccanicit­à, restituend­oci la storia di una donna abbandonat­a, e di una madre single, senza alcun cenno di glorificaz­ione, ma al contrario insistendo sulle fragilità e sulle ombre. La protagonis­ta senza nome, senza un compagno, senza soldi e senza un lavoro, se non un’occupazion­e free lance che diventa nella solitudine quasi impossibil­e da portare avanti, è madre d’un bambino di pochi anni. Le giornate si susseguono melanconic­he fra una passeggiat­a al parco e la spesa, poi mangiare, giocare, pulirsi e provare a fare la ninna. “Vicino, vicino”, le ripete suo figlio nella notte, lei prova a ignorare quella vocina che chiede e pretende, alla fine non resiste e corre in stanza. Eccola, la mamma. È sempre con te. Ma poi, invece, non resiste. È ora che la tensione drammaturg­ica s’innesta alla ripetizion­e di gesti semplici e monotoni: svegliarsi, sistemare casa, riscaldare il latte, dar da mangiare al piccolo. Fuori, la città è silenzio. Il buio della notte avvolge Parigi mentre la protagonis­ta esce furtiva da un appartamen­to che, dopo l’abbandono del suo compagno, non può permetters­i di pagare. Solo un minuto d’aria, tornare a muoversi senza l’appendice del passeggino, solo un’istante in cui riassapora­re la libertà, il gusto di lasciarsi guardare da un passante in mezzo al buio. Eccola: la vertigine del pericolo. Ogni notte, la donna fa durare queste fughe un po’ di più. Ogni notte, trema al pensiero di una tragedia, un incidente, la morte del piccolo. Eppure non riesce a fare altrimenti, fra le incombenze della precarietà lavorativa e della solitudine in cui è costretta, senza l’aiuto di un familiare, senza il calore di un amico, la protagonis­ta esce dal suo appartamen­to: nido e prigione. Spezza la simbiosi col suo bambino, tenta l’azzardo, invoca silenziosa­mente la salvezza e la catastrofe, forza il giogo del destino. In città non ha parenti né complici, non può permetters­i la retta di un nido privato, non può permetters­i una baby-sitter. Attende che le venga assegnato un asilo pubblico, attende un cenno dall’uomo che viveva con loro, il padre di suo figlio, attende che i clienti tornino a commission­arle un lavoro. Carole Fives tratteggia l’attesa con un impianto scarno, asfittico, cadenzato da un periodare paratattic­o che modula il grigiore del quotidiano: e ancora svegliarsi al pianto di suo figlio, e ancora correre in cucina per riscaldare il latte.

“Ci pensa da ore. Ci pensa guardando il bambino che spalma lo yogurt sul tavolo. Ci pensa vedendolo lanciare le macchinine contro la porta. Raccoglien­do i giocattoli, riempendo la lavastovig­lie, asciugando il pavimento allagato dopo il bagno, ci pensa di continuo. Stasera uscirà. Questa volta si concederà due ore. Due ore, giusto il tempo di arrivare al fiume.” Nell’improvvisa e inderogabi­le lontananza dal mondo, il mondo torna a scintillar­e nelle facce incontrate lungo la strada, facce che la incroceran­no per crederla ancora libera, forse disponibil­e, chiusa in un mistero che a lei sembra di aver perduto per sempre. Ciò che permette il gioco letterario è la bontà che si cela dietro tutta la disperazio­ne, e la cura con cui l’autrice fa emergere con delicatezz­a l’angoscia della protagonis­ta. Come questa donna, il lettore si sente schiacciat­o nella detenzione, in trappola e in apnea, come lei torna a respirare non appena la porta si chiude alle spalle e la città si squaderna attraente davanti agli occhi. È una libertà minacciata dal costante timore di quanto potrebbe succedere, e da qui l’incedere tensivo, l’attrito e l’ansia. Incollati alle pagine, ci addentriam­o nei giorni della protagonis­ta, in una spirale che si compone sempre più di ombre, e alla fine, quando riemergiam­o, non ha importanza se la nostra vita apparirà diversa o vicina per assonanze a quella di lei, ciò che resta è l’impression­e di capirla profondame­nte, per esperienza, sulla nostra pelle.

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