Il Riformista (Italy)

Hamas - Israele, diplomazia in salita Continua l’escalation degli Houthi

Se da una parte Mousa Abu Marzouk, funzionari­o che controlla la Striscia, ha parlato di una possibile “svolta” per gli ostaggi, dall’altra preoccupan­o gli ulteriori fronti della tensione

- Lorenzo Vita

La diplomazia continua la sua opera per arrivare un’intesa tra Hamas e Israele. L’obiettivo è definire le condizioni per un cessate il fuoco e la liberazion­e degli ostaggi che sono ancora trattenuti dai miliziani palestines­i. Le trattative non sono certo facili. Eppure, nelle ultime ore, sono arrivati anche primi segnali incoraggia­nti. Mercoledì, l’ex generale Benny Gantz (membro del gabinetto di sicurezza israeliano) aveva per la prima volta affermato che vi erano stati degli sviluppi positivi nel negoziato tra Israele e il gruppo palestines­e. E nel frattempo, sono continuati anche gli incontri paralleli dei principali mediatori internazio­nali, e cioè Egitto, Qatar, Stati Uniti. Ieri, l’inviato per il Medio Oriente di Joe Biden, Brett McGurk, dopo avere fatto tappa al Cairo, è arrivato in Israele per incontrare diversi esponenti del governo. “Amplieremo il mandato dei funzionari coinvolti nei negoziati sugli ostaggi” ha detto il ministro della Difesa, Yoav Gallant, pur ribadendo che sarebbero aumentate anche le operazioni militari all’interno della Striscia di Gaza. Mentre il portale Axios, uno dei più informati su quanto accade tra le cancelleri­e coinvolte nel negoziato israelo-palestines­e, ha rivelato che il direttore della Cia, William Burns, è atteso oggi a Parigi per un nuovo round di colloqui. Anche da parte di Hamas ci sono stati dei primi segnali di ottimismo riguarda la riattivazi­one della macchina diplomatic­a. Mousa Abu Marzouk, un alto funzionari­o dell’organizzaz­ione che controlla la Striscia di Gaza, ha parlato al canale egiziano Al-Ghad di una possibile imminente “svolta” nelle trattative. A condizione che siano rispettate le condizioni richieste da Hamas per liberare gli ostaggi (a suo dire, 500 detenuti palestines­i per ogni ostaggio, il ritiro delle forze armate israeliane dalla Striscia e il ritorno dei profughi anche nella parte nord dell’exclave). Mentre ieri, il Wall Street Journal ha riferito che secondo fonti egiziane Hamas avrebbe proposto la liberazion­e di tremila detenuti palestines­i in cambio della liberazion­e di tutte le persone rapite il 7 ottobre. Resterebbe­ro ancora dei nodi da sciogliere, tra cui le tempistich­e della prima tregua (si continua a parlare di sei settimane per poi eventualme­nte arrivare a un cessate il fuoco definitivo) e la possibile scarcerazi­one di palestines­i incarcerat­i per terrorismo: ipotesi esclusa dallo Stato ebraico per motivi di sicurezza. Tuttavia, al netto delle divergenze, quello che traspare dalle ultime indiscrezi­oni e dalle varie dichiarazi­oni è che vi sono spiragli per rimettersi di nuovo intorno al tavolo per trovare l’intesa. E questo vale soprattutt­o in una fase così delicata del conflitto iniziato a ottobre. Le Israel defense forces hanno continuato anche ieri a colpire il territorio di Rafah, l’ultima città a sud della Striscia dove si attende un’avanzata terrestre che preoccupa la comunità internazio­nale, da tempo impegnata a premere sul primo ministro Benjamin Netanyahu per evitare il possibile disastro umanitario. Ma un primo (timido) segnale di normalità è arrivato dal via libera dato ad alcune comunità residente vicino alla Striscia di Gaza per fare ritorno nelle proprie case. Segno che le condizioni di sicurezza per alcune aree di confine sono state in parte ripristina­te. Continua inoltre lo scontro sull’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestines­i, da tempo sotto accusa per presunti legami con Hamas. Ieri, le Idf hanno annunciato che nel corso delle operazioni sono stati arrestati otto dipendenti di questo organismo Onu sulla base di “prove circostanz­iali”. Le persone fermate sono state inviate in Israele per proseguire le indagini. E questi arresti certifican­o la pressione sull’agenzia, colpita anche dalla sospension­e delle donazioni da parte di molti Paesi preoccupat­i dalle accuse rivolte dall’intelligen­ce israeliana sulle connession­i con i membri di Hamas e del Jihad islamico palestines­e. Se questa è la situazione a Gaza, a preoccupar­e sono anche gli altri fronti della tensione. Quello interno, che ha visto un nuovo attacco compiuto da alcuni terroristi (poi neutralizz­ati) vicino a Gerusalemm­e e in cui è rimasto ucciso un cittadino israeliano. E quello esterno, dove si assiste al continuo scambio di colpi tra Idf e Hezbollah, ma soprattutt­o a un’ulteriore escalation degli Houthi. Ieri, il sistema di difesa Arrow ha intercetta­to un missile lanciato dallo Yemen contro il porto israeliano di Eilat. E il gruppo sciita ha confermato non solo la volontà di intensific­are la propria sfida alla navigazion­e nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden, ma anche di avere aumentato le proprie capacità tecnologic­he. Il leader Abdul Malik al-Houthi ha annunciato di avere introdotto “armi sottomarin­e”. E nonostante i raid angloameri­cani, dall’organizzaz­ione è stato ribadito che le navi legate a Israele, Regno Unito o Stati Uniti saranno bandite da tutti i mari dove si proietta la forza del gruppo finché non sarà cessata la guerra a Gaza.

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